Tumore, cancro o neoplasia? O altro ancora?

È noto l’impegno del professor Umberto Veronesi perché si preferisse il termine “tumore” a “cancro”.

Tumore è indubbiamente parola meno evocativa, meno forte di “cancro”. La prima deriva dal latino tumor (gonfiore, rigonfiamento) e attinge all’aspetto macroscopico della neoformazione che si presenta frequentemente con una massa in rilievo sul sito anatomico di origine. Non dimentichiamo poi che i tumori possono essere benigni o maligni.

Non è così per cancro parola antichissima, dai tempi di Ippocrate (460-377 a.C.) che la coniò per primo. Deriva dal greco karkínos, “carcinoma” che significa “granchio”, e che in latino diventa cancer, da cui cancro. L’aspetto della tumefazione, circondata da vasi sanguigni ingrossati, ricordava a Ippocrate un granchio nascosto nella sabbia con le zampe disposte in cerchio. L’immagine era particolare (pochi cancri somigliano davvero a dei granchi), ma anche abbastanza efficace: per alcuni la superficie indurita e opaca del tumore ricordava il carapace di un granchio. Alcuni pazienti dicevano di “sentire un granchio muoversi sotto la pelle” mentre la malattia, di soppiatto, si diffondeva nel corpo. Per altri ancora, l’improvvisa fitta di dolore prodotta dalla malattia era come essere presi tra le chele di un granchio.

Come si vede, parola che evoca indubbiamente scenari forti.

Come abbiamo visto c’è poi il termine carcinoma, traduzione letterale di karkínos, ma questo è un qualsiasi tumore maligno originato da un tessuto epiteliale (epitelio di rivestimento o ghiandolare), organizzato in piani o strati.

Meglio dunque “tumore”, o anche neoplasia (dal greco, neo, nuova, e plasia, formazione – fu Rudolf Virchow [1821-1902] a introdurre questo termine). È sostanzialmente sinonimo di tumore, ma prende in considerazione, più che l’aspetto esteriore della massa, il contenuto cellulare della stessa, costituito da cellule di “nuova formazione”.

Vi sono persino alcune sigle per definire un tumore, con l’evidente intenzione di nascondere al paziente la natura del suo male: ecco allora Ca e K. E anche parole difficili ed esclusive del linguaggio medico, impiegate per la stessa ragione: è il caso di discario, da “discariogenesi”, alterata divisione cellulare.

Anche le “metastasi” trovano in “lesioni secondarie” e “lesioni ripetitive” degli eufemismi, dei sinonimi meno trasparenti.

La parola oncologia, la branca della medicina che si occupa dello studio dei tumori, ha anch’essa una storia assai interessante dietro di sé; deriva dal greco onkos (massa o carico, o più comunemente peso): il tumore veniva immaginato come un peso portato dal corpo. Nel teatro greco la stessa parola, onkos, si usava per indicare una maschera tragica spesso “appesantita” da uno scomodo cono sopra la testa, a indicare il peso psicologico portato da chi la indossava.

Immagine di © Hans Hillewaert, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1770976

Cute o pelle? Le sinonimie nel linguaggio medico

Nello scorso articolo abbiamo visto come ci siano più termini per definire una stessa condizione, ma non si trattava di sinonimi in quanto malattia, morbo, patologia, sindrome, disturbo hanno contesti d’uso diversi.

Qui, invece, affrontiamo il tema delle sinonimie nel linguaggio medico, cioè quei termini che sono in effetti sinonimi.

Per esempio, globuli rossi, eritrociti ed emazie si usano indifferentemente per indicare uno dei tre elementi corpuscolati del sangue. Analogamente, i globuli bianchi possono anche essere definiti leucociti.

Moltissimi altri gli esempi:

  • rachide, colonna vertebrale
  • cute, pelle
  • canale alimentare, canale digerente, tubo digerente, tubo gastroenterico
  • fegato, parenchima epatico
  • cistifellea, colecisti, vescichetta biliare
  • tube di Falloppio, salpingi, tube uterine, trombe uterine
  • cefalea, mal di testa
  • raffreddore, corizza
  • trisomia 21, trisomia G, sindrome di Down
  • blenorragia, gonorrea
  • brucellosi, febbre maltese

In realtà, anche per questi e molti altri (l’elenco sarebbe davvero infinito) il professor Serianni parla di “variazioni diafasiche legate a vari contesti d’uso”.1

La “diafasia”, è il caso di ricordarlo, è una variabile sociolinguistica determinata dal mutare della situazione nella quale il parlante si trova a comunicare: il contesto, gli interlocutori, le circostanze o le finalità della comunicazione.

E in effetti si tratta proprio di questo.

Il paziente tipo molto difficilmente dirà d’avere un “problema alla cute”, ma userà “pelle”, né dirà di avere una “cefalea” ma userà “mal di testa” e meno che mai scomoderà il termine “corizza” per indicare un raffreddore.

In altre parole, se è vero che molti termini quasi si equivalgono, alcuni di questi hanno una valenza più “popolare” e altri un uso più strettamente “medico”.

Torneremo più volte sull’argomento, perché sono infiniti i contesti in cui la medicina si esprime diversamente dal linguaggio comune, qui abbiamo solo voluto introdurre l’argomento.

E per finire con un sorriso (ci vuole in un blog come questo, di per sé un po’ impegnativo), oggi va molto meglio perché le cose vengono chiamate in definitiva con il loro nome, ma non sempre è stato così. Anzi…

Era alquanto disdicevole, per esempio, usare la parola “pene” e si ricorreva a “membro”, “verga” o “priapo”.

E neppure “mestruazioni” era parola da dirsi, ed ecco allora i “mesi”, le “purghe”, i “corsi lunari”, i “benefici lunari”, i “tributi lunari”. Si noti anche qui il linguaggio “alto” rispetto ai popolari “le mie cose”, “quei giorni”, “i parenti in visita” e “il marchese”…

PS: grazie a tutti coloro che seguono questo blog con tanto interesse. Non avrei davvero immaginato. Mi raccomando, commentate a fondo pagina, perché lo spirito di un blog è questo: confrontarsi su un tema, nel nostro caso suggerire varianti, altri modi di dire.

  1. Serianni Luca. Un treno di sintomi. I medici e le parole: percorsi linguistici nel passato e nel presente, Milano, Garzanti, 2005.