Quando le unità di misura le fa il corpo umano

In un precedente articolo ci siamo occupati delle unità di misura. Ci torniamo sopra con un po’ di storia, cosa sempre interessante, tanto più che qui diremo di unità di misura che facevano riferimento al corpo umano e sue parti. Il dizionario della lingua italiana Zingarelli, nella “parola del giorno”, le ha raccolte nel corso di un paio di settimane. Vediamole insieme.

  • Auna – antica misura di lunghezza usata in Francia e in Belgio prima dell’adozione del sistema metrico decimale (aune, dal francone alina, sta per “avambraccio”). 
  • Bema – nell’antica Grecia, unità di misura di lunghezza equivalente a 0,74 metri (dal greco bêma, che significa “passo”, dal verbo báinein, “camminare”). 
  • Braccio – antica unità di misura lineare, specie per stoffe, il cui valore oscillava tra 0,58 e 0,70 metri.
  • Cubito – antica unità di misura di lunghezza (dal latino cŭbitu(m), “gomito”).
  • Dito – misura, quantità e simili corrispondente circa alla larghezza di un dito.
  • Palmo – distanza compresa tra le estremità del pollice e del mignolo della mano aperta e distesa, ma anche antica misura di lunghezza corrispondente all’incirca a un quarto del metro, cioè a 25 cm.
  • Passetto – antica unità di misura di lunghezza italiana, pari a un piccolo passo.
  • Passo – antica unità di misura lineare, variabile, nel tempo e nel luogo, da circa 1,50 m a 2 m, ma anche spazio (di circa 60-70 cm) percorribile con un passo.
  • Pertica – misura agraria romana di lunghezza, pari a circa dieci piedi.
  • Piede – unità di misura di lunghezza inglese corrispondente a 12 pollici o a un terzo di yard, ed equivalente a 30,48 cm.
  • Pollice – misura di lunghezza inglese, pari a 0,914 metri.
  • Spanna – lunghezza della mano aperta e distesa, dalla estremità del mignolo a quella del pollice.
  • Tesa – misura di lunghezza pari all’apertura delle braccia.

Nell’immagine, strumenti di misura nel Rinascimento (Lastra pubblica di misurazione in vigore nella città di Senigallia, 1490).

Come si scrivono batteri e virus?

Proviamo a fare chiarezza e a dare qualche regola circa le modalità di scrittura di batteri e virus, argomento piuttosto controverso.

Per i nomi dei batteri si riportano solitamente il genere (per es., Escherichia) e la specie (per es., coli). Questi nomi scientifici, in latino, vanno composti in corsivo con l’iniziale del primo termine (il genere) in maiuscolo, mentre il nome della specie viene composto in minuscolo (per es., Escherichia coli).

Quando si fa riferimento alla famiglia cui essi appartengono (per es., Enterobacteriaceae), questa – per convenzione – viene composta in tondo, anche se trattasi di nome latino. Idem per ordine, classe, phylum, regno e dominio.

Dopo la prima citazione, all’interno di uno stesso articolo o capitolo, si può contrarre il primo termine con la sola iniziale puntata (per es., E. coli). Attenzione, tuttavia, ai generi che iniziano con la “S” perché essendo molti (si pensi solo a Streptococcus e a Staphylococcus) l’uso della sola iniziale potrebbe creare confusioni, pertanto vanno abbreviati solo quando si è certi che non vi sono ambiguità.

Se non si usa il termine scientifico latino, ma la forma italianizzata (per es., clamidia e non Chlamydia o streptococco e non Streptococcus), ovviamente non si farà più ricorso né al corsivo né all’iniziale maiuscola.

Spesso il genere del batterio è seguito dall’abbreviazione “sp.” o “spp.” (l’abbreviazione al singolare viene spesso usata dopo il nome del genere quando non si riconosce la specie precisa, mentre il plurale lo si utilizza per riferirsi a tutte le specie appartenenti allo stesso genere) e che va composta anch’essa in tondo.

Circa l’uso dell’articolo davanti al nome dei batteri, è sostanzialmente una questione di stile di scrittura. Normalmente, le norme redazionali lo sconsigliano per i nomi latini delle specie equiparandoli a nomi propri. Tuttavia, in un contesto discorsivo, è accettabile (per es., l’E. coli), ma se il nome del batterio è seguito da “spp.”, l’articolo non va usato. Gli inglesi non lo usano mai.

Quanto ai virus, di solito per questi si usano i nomi comuni (per es., citomegalovirus, papillomavirus, herpesvirus,…) per cui non si fa ricorso al corsivo, che invece ovviamente andrà usato se ne si riporta il nome scientifico.

Immagine da: Di Phoebus87 di Wikipedia in inglese, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3072531

Elenchi e parentesi

Chiudiamo questa sezione dedicata agli aspetti redazionali con alcune indicazioni su come trattare elenchi e parentesi.

Elenchi. Per gli elenchi all’interno del testo, usare lo “stile elenco”, con i classici puntini o trattini. In alternativa, le forme 1) … 2) … 3) … o a) … b) … c) … Quando un elenco, di solito introdotto dai due punti, è costituito da frasi brevi, usare per ogni frase l’iniziale minuscola e il punto e virgola alla fine della stessa; tuttavia, se la frase non contiene segni di punteggiatura ed è particolarmente breve, alla fine di ogni riga si può usare anche la virgola o addirittura nessun segno di interpunzione. Usare comunque il punto alla fine dell’ultima riga dell’elenco stesso. Se l’elenco è invece costituito da frasi lunghe, ciascuna di esse avrà l’iniziale maiuscola e il punto alla fine della stessa: né più né meno, dunque, di una frase normale, che si distinguerà solo per un rientro sul margine sinistro. Questo tipo di elenco, di solito, non viene introdotto, come abbiamo visto sopra, da una frase che finisce con i due punti, ma da una frase di senso compiuto chiusa da un punto. È preferibile che il capoverso che segue l’ultimo punto dell’elenco non sia rientrato, a maggior ragione se vi è una spaziatura.

Parentesi. Le parentesi non sono mai precedute da segni di interpunzione e i segni di punteggiatura vanno sempre dopo la chiusura delle parentesi, tranne quando la frase tra parentesi è di senso compiuto e ha l’iniziale maiuscola: in questo caso, il punto deve essere posto all’interno della parentesi di chiusura, e non all’esterno (analogamente, per eventuali punti interrogativi ed esclamativi). Dopo la parentesi di apertura non deve essere inserito alcuno spazio, così come prima della parentesi di chiusura. All’interno delle parentesi tonde, se necessitano altre espressioni tra parentesi, usare le quadre. Le parentesi quadre si usano anche per contenere indicazioni redazionali, precisazioni da parte dell’editore o del curatore del testo.

Segni e operatori matematici

Gli operatori matematici (+, –, x, :, =) sono preceduti e seguiti da uno spazio, tranne quando i segni + o – indicano un numero positivo o negativo, nel qual caso lo spazio non viene messo (ricordare, per il segno di meno, di usare il trattino medio [Alt + 0150] e non il trattino corto). Anche per i due punti (:), quando indicano una proporzione (per es., il rapporto maschi:femmine è 3:4) non si usa lo spazio né prima né dopo il segno stesso.

Il segno di percento (%) segue il numero senza spazio; preferire sempre il segno grafico alla parola percento. Negli intervalli di percentuali, evitare la ripetizione del segno grafico (per es., 1-2% e non 1%-2%).

I segni di maggiore e minore (> e <) sono preceduti da spazio ma uniti al numero che segue (per es., >2), tranne quando indicano un confronto tra due parametri (per es., p < q).

Attenzione a questi segni e ad altri operatori matematici (in particolare ≥, ≤, ±…): purtroppo, molto spesso, alcuni di questi si “perdono” nel passaggio da Windows a Mac trasformandosi in altro ed è pertanto opportuno evidenziarli affinché in bozza possano essere prontamente verificati. In alternativa, si può usare, per esempio, il simbolo # prima e dopo il segno in oggetto, il che permetterà al compositore di individuarli e conservarli. Questo problema può verificarsi anche con le lettere dell’alfabeto greco (α, β, γ…), peraltro molto usate in medicina (per es., α-litici, β-bloccanti…). Controllare sempre, pertanto, che tali lettere contenute nel file originale siano state conservate in bozza, o, in alternativa, preferire la forma estesa (alfa, beta, gamma…) eventualmente da convertire poi nel segno grafico corrispondente.

Analogo problema può verificarsi con il simbolo di microgrammo (“μg”), che può pertanto essere scritto nel file originale con “mcg” per poi essere convertito a “μg”.

Uso del corsivo

Il corsivo si usa per evidenziare frasi o parole in relazione alla loro rilevanza nel testo, così come per i titoli dei libri, dei periodici, dei film. Ma, e questo è ciò che più qui ci interessa, lo si utilizza anche per quei termini inglesi (o comunque parole straniere) non di uso comune nella lingua italiana. Qui, un elenco dei termini ormai “sdoganati”, che pertanto non richiedono il corsivo.  In teoria, tutti gli altri andrebbero scritti in corsivo. Tuttavia, vanno fatte alcune distinzioni. In una pubblicazione specialistica, per esempio, per molti termini ormai comuni in un determinato ambito si può accettare l’uso del tondo. Molti termini, poi, conflusicono in una sigla o in un acronimo, per cui – come detto nell’apposita sezione – una volta esplicitata la stessa (con l’equivalente  inglese in corsivo), non verranno più usati. Ricordare che i nomi degli studi clinici e delle associazioni vanno composti in tondo e non in corsivo, trattandosi di nomi propri (e non devono mai essere tradotti).

Quando un termine inglese tecnico o specialistico ricorre molte volte nel testo, lo si può scrivere in corsivo solo la prima volta che ricorre, specie se viene spiegato.

In corsivo si indicano anche i nomi dei microrganismi il cui nome scientifico è in latino, con l’iniziale del primo termine (il genere) in maiuscolo e del secondo (la specie) in minuscolo (per es., Neisseria meningitidis).

Anche per alcune espressioni latine come in vitro, in vivo, ex vivo, in situ viene adottato preferibilmente il corsivo.

Infine, molto importante anche perché è un errore comune, non fare mai uso del corsivo e delle virgolette insieme, l’uno esclude le altre, e viceversa.

Come trattare figure e tabelle e loro riferimenti nel testo

Continuiamo con il proporre alcuni temi a carattere redazionale, sempre utili a chi scrive e traduce testi di medicina.

Oggi ci occupiamo di figure e tabelle, di come queste vanno trattate, e loro riferimenti nel testo.

Le figure devono essere di buona qualità, in un formato adatto per la stampa (per es., jpeg). Non inserire mail le figure nel testo di Word e per esse non usare mai tale formato. Se protette da copyright, occorre disporre dell’autorizzazione al loro utilizzo. Le fotografie che ritraggono pazienti potenzialmente identificabili devono essere accompagnate da un permesso scritto per il loro uso o, in alternativa, trattate di modo da nasconderne gli occhi o altri elementi che consentano il riconoscimento. Analogamente, il nome del paziente che spesso compare in alcune immagini (come in quelle ecografiche, nelle lastre Rx, o nelle strisce di elettrocardiogrammi) va rimosso.

Didascalie. La didascalia di una figura viene posta sotto la figura stessa (se non a lato per esigenze grafiche) e ha il punto finale (mentre nelle tabelle il titolo e l’eventuale testo che segue è collocato sopra la tabella stessa senza il punto finale).

Nella didascalia, la parola Figura viene solitamente composta in bold, seguita dal numero della stessa (secondo una numerazione consecutiva che rispetta l’ordine con cui le figure sono citate nel testo), dal punto e quindi dal testo della didascalia (per es., Figura 1. …). Molto spesso i numeri sono due: prima quello del capitolo in cui si trova la figura e poi il numero progressivo della figura all’interno del capitolo stesso – in questo caso il secondo numero non è seguito dal punto (per es., Figura 1.1 oppure Figura 1-1).

Qualsiasi sigla che compaia nella figura va esplicitata nella didascalia e segue il testo della stessa (per es., AD = malattia di Alzheimer, oppure AD, malattia di Alzheimer). Se le sigle sono più di una è consigliabile indicarle seguendo l’ordine alfabetico, anche se taluni preferiscono elencarle in base alla loro posizione nella figura, andando dall’alto in basso e da sinistra a destra.

Se va citata la fonte della figura, tale citazione segue la didascalia e la legenda delle sigle; solitamente si usano le forme “Da … ; riproduzione autorizzata” [l’equivalente dell’inglese from], o “Per gentile concessione di …” [l’equivalente dell’inglese with permission]. Se la figura è stata modificata rispetto all’originale, ciò va precisato, di solito nella forma “modificata da…”.

Rimandi nel testo alle figure. Ogni figura deve avere il suo rimando nel testo, solitamente tra parentesi e in bold (per es., Figura 1.1, eventualmente anche nella forma contratta [Fig. 1.1]). Se si rimanda a una figura più di una volta, per i rimandi successivi al primo non si usa più il bold e si mette il “vedi” davanti (per es., vedi Figura 1.1).

Quando, invece, il rimando alla figura è contenuto nel testo stesso, in forma discorsiva, si privilegiano forme del tipo “… come si può osservare nella Figura 1.1 …”, anche qui preferibilmente con la F di figura in maiuscolo.

Gli autori di pubblicazioni scientifiche possono trovare indicazioni generali su come trattare le figure (oltre che per tutti gli altri aspetti relativi alla loro stesura) nel documento “Recommendations for the Conduct, Reporting, Editing, and Publication of Scholarly Work in Medical Journals”, a cura dell’International Committee of Medical Journal Editors (ICMJE), scaricabile al seguente link: http://www.icmje.org/recommendations/    

L’edizione italiana (“Requisiti di Uniformità ICMJE”), seppure al momento si tratti della traduzione di una precedente versione, è disponibile sul sito della Fondazione GIMBE.

Inoltre, ogni Editore di pubblicazioni scientifiche pubblica in un’apposita sezione del proprio sito internet le specifiche indicazioni per gli autori.

Le tabelle devono riportare informazioni in modo conciso ed essere efficaci; in molte occasioni possono anche sostituire il testo riducendone la lunghezza. Ogni colonna deve avere un’intestazione breve o abbreviata; usare solo i fili di suddivisione indispensabili (solitamente quelli che separano le intestazioni dei dati, mentre sono spesso superflui quelli che dividono le colonne tra loro e ancor più le righe); ricordare di allineare i valori numerici al punto delle migliaia o alla virgola dei decimali e che solitamente non si usa il punto alla fine delle righe di testo interne alla tabella.

Come già detto, nelle tabelle il titolo e il testo che segue sono posizionati sopra la tabella stessa (a differenza delle figure) e non è previsto il punto finale.

Per il resto, valgono le medesime considerazioni fatte sopra per le figure. Si aggiungerà solo che se le abbreviazioni e le sigle contenute in una tabella sono molte possono essere seguite dai simboli, in sequenza, *,†,‡,§,||,¶,**,††,‡‡ che verranno poi ripresi nella legenda per la loro esplicitazione.

Le unità di misura

Il blog di terminologia medica riprende le pubblicazioni dopo la pausa estiva.

Dedicherò qualche articolo a “questioni redazionali”, credo sempre utili a chi scrive e traduce in medicina. Ricordo che sono stati già pubbblicati articoli su come redigere la bibliografia, come si scrivono i numeri, e su come trattare i termini composti.

Oggi ci occupiamo di come trattare e utilizzare correttamente le unità di misura. Argomento non inutile e non balzano, perché nonostante le indicazioni siano molto chiare, precise, e inequivocabili, gli errori che si fanno nell’uo delle unità di misura sono ancora molti. Basti pensare a gr per grammo (anziché g), Kg per kilogrammo (anziché kg), sec per secondo (anziché s), min. per minuto (anziché min), mt per metro (anziché m).

Occorre sempre fare riferimento al Sistema Internazionale di unità di misura (SI). Esse si distinguono in fondamentali e derivate (qui le tabelle insieme a quella dei prefissi moltiplicativi).

Le misure di lunghezza, altezza, peso e volume devono essere riportate in unità metriche (metro, chilogrammo, litro) o nei loro multipli/sottomultipli decimali, le temperature in gradi Celsius (nella forma con lo spazio tra il numero e l’unità, per es., 37 °C e non 37°C o 37° C), e la pressione arteriosa in millimetri di mercurio (mmHg).

Le unità di misura dei sistemi britannico o statunitense (once, piedi ecc.) andranno pertanto convertite in quelle SI. Ci sono tuttavia contesti in cui è opportuno, se non necessario, mantenere l’unità di misura originale: basterà affiancarla al valore in unità SI.

Ricordare che, in linea di massima, i simboli sono scritti in minuscolo, a eccezione di quelli in cui l’unità di misura è eponima o deriva dal nome di una persona (per es., Watt). Tuttavia, spesso si preferisce l’uso della elle maiuscola (L) per il litro, anche perché la elle minuscola (l) può essere confusa in molti font con il numero 1. Spesso, coloro che fanno ricorso alla L maiuscola per litro usano anche la L maiuscola per i multipli e sottomultipli (come cL e mL per centilitro e milliltro): in realtà questo accorgimento non solo non è necessario ma francamente sbagliato.

Le unità di misura non vanno mai puntate e la forma al plurale rimane invariata (per es., Watt e non Watts).

Il sistema SI usa gli spazi per separare le cifre intere in gruppi di tre (per es., 1 000 000) e la virgola come separatore tra i numeri interi e quelli decimali. Nel 1997 ha concesso la possibilità di usare il punto, ma solo per i testi il cui linguaggio principale è l’inglese.

Tra i numeri e l’unità di misura va inserito uno spazio (3 m).

Per le valute, solitamente, se si usa il simbolo questo è anteposto rispetto al valore numerico della stessa (per es., € 1200), se si usa la forma in lettere questa è posposta (per es., 1200 euro).

Nell’immagine, strumenti di misura nel Rinascimento (Lastra pubblica di misurazione in vigore nella città di Senigallia, 1490).

Come redigere la bibliografia

La bibliografia è una componente fondamentale di ogni testo scientifico, è pertanto  essenziale sapere come redigere correttamente le voci bibliografiche.

Quello che segue è un esempio di voce bibliografica scritta correttamente:

Mantovani A, Sica A, Sozzani S, et al. The chemokine system in diverse forms of macrophage activation and polarization. Trends Immunol. 2004 Dec;25(12):677-86. doi: 10.1016/j.it.2004.09.015. PMID: 15530839 Review.

(Ho scelto come esempio, non a caso, una pubblicazione del professor Alberto Mantovani, l’immunologo italiano più citato al mondo.)

Gli autori: come si vede, si riportano i primi tre, seguiti da “, et al.” Alcuni preferiscono arrivare a sei autori, ma è francamente troppo. Ogni autore compare con il cognome seguito dall’iniziale del nome, non puntata. In caso di più nomi le iniziali saranno accorpate, sempre senza punto.

Il titolo dell’articolo: va riportato per esteso, senza iniziali maiuscole, tranne per la prima parola o per eventuali nomi propri.

Il titolo della rivista: va riportato nella forma indicata dalla National Library of Medicine (www.ncbi.nlm.nih.gov/nlmcatalog/journals). Tranne che per le riviste con un unico nome (per es., Cancer) il titolo è sempre abbreviato (per es., The New England journal of medicine diventa N Engl J Med, il Journal of the American Medical Association diventa JAMA ecc.). Va riportato in tondo e non in corsivo.

Seguono i dati relativi alla pubblicazione: anno, mese, numero/i che identificano l’elemento, intervallo di pagine. Quest’ultimo è di solito nella forma abbreviata (nell’esempio riportato, 677-86), ma è consentito riportare anche la forma estesa (677-686). Si noti l’assenza di spazio tra  i numeri, ma anche in questo caso è consentito metterli (il che è anche più elegante).

Infine il doi e il PMID: il primo (digital object identifier – identificatore di un oggetto digitale) è uno standard che consente l’identificazione duratura e univoca di oggetti di qualsiasi tipo all’interno di una rete digitale, e l’associazione ad essi dei relativi dati di riferimento – i metadati – secondo uno schema strutturato ed estensibile. Il secondo (PubMed Identifier) è un numero unico assegnato a ciascuna citazione su PubMed. Non è indispensabile che questi dati siano sempre presenti nella voce bibliografica, ma certamente la loro indicazione è di grande aiuto per chi utilizzerà quella bibliografia.

Naturalmente, ci sono infinite variabili: quando gli autori sono organizzati come gruppo di ricerca o come editor, quando si tratta di un supplemento (nel qual caso si userà la forma “Suppl” seguita dal numero dello stesso e dall’intervallo di pagine preceduto da “S” [per es., Suppl 2:S93-9]), o di una parte (per es., Pt 2), oppure quando si precisa la tipologia della pubblicazione (editoriale, lettera, abstract…), o il classico “Epub” seguito da data che identifica un articolo pubblicato on line prima che a mezzo stampa (per es., Epub 2002 Jul 5).

E poi, naturalmente, i libri, i volumi, la cui citazione segue regole diverse, per esempio quella che segue è la citazione dell’ultima edizione del mitico Harrison’s:

Jameson JL, Fauci AS, Kasper DL, Hauser SL, Longo DL, Loscalzo J, editors. Harrison’s Principles of internal medicine. 20th edition. New York: Mc Graw Hill; 2018.

Si noti la sequenza autori (in questo caso editor), titolo del volume, numero edizione, città sede dell’editore, editore, anno. Si faccia caso anche alla punteggiatura (due punti dopo la città, punto e virgola dopo l’editore).

Infine, visto che nel precedente articolo ci siamo occupati di numeri, come vanno trattati i numeri che nel testo rimandano alla bibliografia? Vanno composti, preferibilmente, ad apice; in alternativa, nel corpo testo, tra parentesi tonde o quadre. Qualora vi siano due numeri che rimandano ad altrettante voci bibliografiche non inserire uno spazio tra questi, ma solo la virgola separatrice; se invece i numeri rimandano a un intervallo di voci bibliografiche, usare il trattino (per es., 1-4 [che rimanda alle voci bibliografiche da 1 a 4]). È preferibile posizionarli dopo un eventuale segno di punteggiatura, senza spazio.

PS: naturalmente qualcuno porrà delle obiezioni a quanto sopra, è comprensibile a due condizioni: la prima liberarsi da consuetudini errate purtroppo molto radicate, la seconda rispettare comunque l’uniformità. Ciò che è inaccettabile in uno stesso testo è trovare voci bibliografiche redatte con criteri diversi: se per esempio usate sino a sei autori che siano sempre sino a  sei, e non tre; se usate l’intervallo esteso per i numeri di pagina, che non ci sia anche quello abbreviato; se usate gli spazi tra i numeri che identificano una pubblicazione che non ci siano poi voci senza detti spazi.

Come si scrivono i numeri?

I numeri cardinali vanno espressi in cifre:

  • per indicare sé stessi come entità aritmetiche;
  • quando indicano una quantità definita (per es., lo studio è stato condotto su 309 pazienti);
  • per indicare riferimenti interni (per es., pagina 6; capitolo 4);
  • con le unità di misura (per es., il paziente è alto 1 m e 74 cm e pesa 70 kg);
  • nelle percentuali (per es., il 51% dei pazienti);
  • per le età (per es., il paziente aveva 84 anni);
  • nelle date (per es., 31 maggio 2021);
  • per le ore (per es., alle ore 23.14);
  • negli intervalli numerici quando i due numeri sono separati dal trattino (per es., 3-6 volte);
  • nelle frazioni (quantità numeriche costituite dal rapporto fra due valori interi);
  • per i tempi misurati (per es., 2 h, 24 min e 13 s),
  • per i valori monetari con l’indicazione della valuta in simbolo (per es., 10 €).

Vanno invece espressi in lettere:

  • nelle espressioni linguistiche colloquiali o convenzionali (per es., i primi cento giorni del presidente);
  • quando non si riferiscono a un valore numerico preciso, come per le cifre approssimate (per es., in oltre cento studi…);
  • nelle date intese come ricorrenze (per es., il Primo Maggio);
  • per le ore in contesti discorsivi (per es., intorno alle cinque del pomeriggio);
  • negli intervalli numerici e nelle frazioni, sempre in contesto discorsivo (per es., da tre a sei volte; due terzi dei pazienti);
  • per i valori monetari quando l’indicazione della valuta è espressa anch’essa in lettere (per es., dieci euro);
  • nelle indicazioni di secolo (per es., nel ventesimo secolo; nell’Ottocento);
  • a inizio periodo, dove non si usano mai i numeri in cifre (talvolta basta girare la frase [per es., 10.127 pazienti sono stati inclusi nello studio diverrà Nello studio sono stati inclusi 10.127 pazienti]).

Ci sono poi delle forme ibride (per es, l’infezione ha interessato oltre 2 milioni di persone; 27 mila pazienti [anche nella forma 27mila, senza spazio]).

Inoltre, anche se indicano una quantità numerica precisa, i numeri “brevi” (da uno a dieci, o anche venti) possono essere scritti in lettere anziché in cifre (per es., quattro pazienti), sempre che non si riferiscano a unità di misura, date, riferimenti interni e simili (vedi sopra).

Per separare le migliaia è sempre più diffuso, e anche consigliato, lo spazio separatore, o meglio ancora il carattere di “spazio unificatore” (in Word, Ctrl + Maiusc + barra spaziatrice) per evitare che un numero che dovesse trovarsi a fine riga  possa essere spezzato da un a capo. Ricordare che la separazione delle migliaia avviene solo con i numeri di almeno cinque cifre (per es., 10 000, ma 9999).

L’uso del punto, per separare le migliaia (come nella pratica europea continentale), e ancor più delle virgola (come nella partica anglosassone) può portare a malintesi.

Il segno di separazione per i numeri decimali è, nell’uso europeo continentale, la virgola e il punto nell’uso anglosassone. Quest’ultima modalità la si trova sempre più frequentemente nei testi tradotti (una ragione in più per usare lo spazio unificatore  e non il punto come elemento separatore delle migliaia).

Ricordare che spesso nell’inglese lo 0 che anticipa il decimale è soppresso, non così dovrà essere in italiano (per es., 0,5 [o 0.5] e non .5).

I numeri ordinali generalmente vanno scritti in lettere se minori di dieci, o anche venti (primo, secondo ecc.), diversamente con il numero arabo seguito dal circolino alto (per es., 27° Congresso…).

Ricordare, infine, che questo non va mai usato dopo i numeri romani (per es., III e non III°), un errore grave, purtroppo piuttosto comune.

Trattino sì, trattino no

Avendo messo nel dizionarietto la voce “post partum”, un lettore mi ha chiesto “Quindi ‘post’ (ma anche ‘pre’) va sempre staccato dalla parola che segue? Post sinaptico, post prandiale, ecc.?”.

Questa, potrei dire scherzosamente, è una domanda che avrei preferito non mi venisse fatta. Perché la risposta è complessa e arbitraria. Nel senso che (cito l’Accademia della Crusca) “in questo ambito la variabilità degli usi è decisamente elevata”. Quindi, ciascuno fa un po’ a modo suo. Tuttavia, proviamo a  dare qualche indicazione di base.

In linea di massima, se appena possibile, specie se il termine è entrato nell’uso comune, si tende a evitare il trattino dopo “pre” e “post”, per cui avremo, per esempio, prepuberale, premestruale, postoperatorio (attenzione, se devo scrivere “nel periodo pre- e postoperatorio” il trattino dopo “pre” sta per la parola sottesa, cioè operatorio).

Formazioni, però, del tipo post-frontale, post-maturazione, solo per fare due esempi, richiedono istintivamente il trattino: è una questione di “orecchio”, il termine tutto attaccato suonerebbe male, o – se preferite – non sarebbe bello a vedersi. Più in generale, il trattino si usa quando separa un termine poco usato, non ancora entrato nell’uso comune, o molto specialistico (più con il “post” che con il “pre”).

Il trattino, poi, è obbligato quando separa due consonanti uguali: l’esempio classico è post-traumatico, impossibile da scriversi tutto attaccato. Quando però si tratta di vocali, la cosa è più complessa, basti pensare a preeclampsia, che si scrive solitamente tutto attaccato con la doppia “e”. Altri usano comunque il trattino (pre-eclampsia) per la regola di cui sopra (e cioè separare lettere uguali).

Ma ci sono anche i casi in cui i termini stanno preferibilmente separati senza trattino: è il caso di post partum, post mortem, forse per via del latino, o dell’uso non comune del termine.

E, si faccia attenzione, mi sono limitato al pre e al post, perché altrimenti andiamo a ingarbugliarci ulteriormente. Prendiamo, per esempio, meta-analisi, che si trova tranquillamente anche come metaanalisi e metanalisi, o intra-arterioso, intraarterioso, intrarterioso.

Insomma, tranne poche regole certe, è una questione di sensibilità e scelte individuali, l’importante (che è poi quello che dico sempre anche per molti altri contesti in cui è difficile stabilire regole certe) è essere uniformi all’interno dello stesso testo/articolo; una uniformità assoluta non esiste.