Quando le unità di misura le fa il corpo umano

In un precedente articolo ci siamo occupati delle unità di misura. Ci torniamo sopra con un po’ di storia, cosa sempre interessante, tanto più che qui diremo di unità di misura che facevano riferimento al corpo umano e sue parti. Il dizionario della lingua italiana Zingarelli, nella “parola del giorno”, le ha raccolte nel corso di un paio di settimane. Vediamole insieme.

  • Auna – antica misura di lunghezza usata in Francia e in Belgio prima dell’adozione del sistema metrico decimale (aune, dal francone alina, sta per “avambraccio”). 
  • Bema – nell’antica Grecia, unità di misura di lunghezza equivalente a 0,74 metri (dal greco bêma, che significa “passo”, dal verbo báinein, “camminare”). 
  • Braccio – antica unità di misura lineare, specie per stoffe, il cui valore oscillava tra 0,58 e 0,70 metri.
  • Cubito – antica unità di misura di lunghezza (dal latino cŭbitu(m), “gomito”).
  • Dito – misura, quantità e simili corrispondente circa alla larghezza di un dito.
  • Palmo – distanza compresa tra le estremità del pollice e del mignolo della mano aperta e distesa, ma anche antica misura di lunghezza corrispondente all’incirca a un quarto del metro, cioè a 25 cm.
  • Passetto – antica unità di misura di lunghezza italiana, pari a un piccolo passo.
  • Passo – antica unità di misura lineare, variabile, nel tempo e nel luogo, da circa 1,50 m a 2 m, ma anche spazio (di circa 60-70 cm) percorribile con un passo.
  • Pertica – misura agraria romana di lunghezza, pari a circa dieci piedi.
  • Piede – unità di misura di lunghezza inglese corrispondente a 12 pollici o a un terzo di yard, ed equivalente a 30,48 cm.
  • Pollice – misura di lunghezza inglese, pari a 0,914 metri.
  • Spanna – lunghezza della mano aperta e distesa, dalla estremità del mignolo a quella del pollice.
  • Tesa – misura di lunghezza pari all’apertura delle braccia.

Nell’immagine, strumenti di misura nel Rinascimento (Lastra pubblica di misurazione in vigore nella città di Senigallia, 1490).

Taglio cesareo o parto cesareo?

Un affezionato lettore del blog mi chiede se sia più corretto usare “taglio cesareo” o “parto cesareo”.

Esistono entrambe le forme e sono accettate entrambe, anche se la mia preferenza, per le ragioni di cui dirò, è per “taglio cesareo”, anche se una ricerca su Google ha dato ben 2.050.000 occorrenze per “parto cesareo” contro le 706.000 di “taglio cesareo”.

La storia del taglio cesareo è antichissima. Si ha una prima testimonianza risalente addirittura al 715 a.C. quando una legge romana (la “Lex Cesarea”) prevedeva l’estrazione del feto dalle donne morte durante il travaglio di parto. Questo veniva fatto con lo scopo di salvare il bambino (cosa che peraltro succedeva di rado), perché era vietato seppellire una donna gravida prima dell’estrazione del feto (e in seguito anche per poterlo battezzare). Ebbene, quella “Lex Cesarea” prende il nome  dal verbo latino caedo, caedis, cesi, caesus sumcaedere  cioè “tagliare”. Questa una prima ragione per cui preferire “taglio” a “parto”, e cioè l’origine etimologica. Certo, alcuni potrebbero obiettare che visto che “cesareo” sta già per “taglio” dire “taglio cesareo” è una ripetizione…

I bambini che venivano estratti post-mortem venivano chiamati cesones o césares; è infondata invece l’origine del termine in relazione alla nascita di Giulio Cesare, semplicemente per il fatto che sua madre (Aurelia Cotta) morì anni dopo aver dato alla luce il figlio. Piuttosto è il cognomen “Caesar” che potrebbe derivare dal fatto che un antenato di Cesare nacque dall’utero tagliato (lo racconta Plinio il Vecchio che a proposito di Manlio il Cartaginese e Scipione l’Africano dice che erano chiamati “Cesari” perché estratti dal ventre tagliato della loro madre).

Interessante, poi, sapere che San Cesareo di Terracina è il protettore del parto cesareo. Costui (un giovane diacono martirizzato a Terracina all’inizio del II secolo d.C.), è appunto il santo protettore dei parti cesarei in virtù del suo nome, questo sì legato al grande condottiero romano (il nome Cesareo significa “devoto a Cesare”).

Insomma, per tornare alla domanda del lettore, direi che il parto cesareo è quello che avviene attraverso un taglio cesareo; quindi, darei la preferenza alla correttezza di quest’ultimo termine. Anche la comunità scientifica credo che per la maggioranza la pensi così: riprova ne è che la AOGOI (Associazione Ostetrici Ginecologi Ospedalieri Italiani) parla di “linee guida AOGOI taglio cesareo” (qui).

Terminologia dei disturbi neurologici

I termini che definiscono molti disturbi neurologici sono – dal punto di vista linguistico ed etimologico – affascinanti. Scopriamoli insieme, partendo da quelli preceduti dalla “a” privativa (nel greco, la lettera alfa usata come prefisso attribuisce al termine significato di privazione).

abasia [a-; gr. bas(is) = marcia; -ia] Impossibilità, parziale o totale, di camminare per incoordinazione dei movimenti. Può essere causata da disturbi psichici (per esempio, isterismo), da patologia cerebellare o vestibolare in assenza di anestesia o paralisi muscolare. Coesiste spesso con l’incapacità di stazione eretta (astasia).

abulia [a-; gr. boül(ē) = volontà; -ia] Perdita della iniziativa motoria e della volontà di agire. Il soggetto vive in uno stato di indecisione assoluta e di dubbi penosi, fino a giungere a una condizione di inerzia e di immobilità pressoché totali.

acalculia [a-; lat. calcul(are) = calcolare; -ia] Incapacità a eseguire anche i più elementari calcoli matematici.

acinesia [a-; gr. kinēs(is) = movimento; -ia] Povertà di ogni movimento che viene iniziato con notevole lentezza. Si riscontra nel morbo di Parkinson in cui l’individuo inizia con difficoltà i movimenti, per esempio la deambulazione che, in un secondo momento, diviene più spedita.

adiadococinesia [a-; gr. diadochos = successivo; kinēs(is) = movimento; -ia] Impossibilità o ridotta capacità di compiere in rapida successione movimenti opposti quali pronazione e supinazione degli arti superiori. Si tratta di una incoordinazione motoria associata a danno della funzionalità cerebellare.

afasia [a-; gr. fas(is) = parola; -ia] Perdita o riduzione della capacità di esprimersi mediante il linguaggio parlato o scritto, associata ad anomalie nella comprensione del linguaggio parlato e della lettura. È conseguente a una lesione circoscritta dei centri del linguaggio situati nella corteccia cerebrale. Si distinguono due forme classiche di afasia: l’afasia motoria di Broca e l’afasia sensoriale di Wernicke.

ageusia [a-; gr. geüs(is) = gusto; -ia] Perdita totale del senso del gusto. Può essere centrale, per emorragie o tumori nei centri gustativi, oppure periferica, per esempio in seguito a distruzione delle papille gustative o a processi che abbiano leso le fibre gustative (diabete, nevriti tossiche o infiammatorie, nefropatie croniche). Esiste inoltre un’ageusia su base funzionale nevrotica.

agnosia [a-; gr. gnōs(is) = conoscenza; -ia] Incapacità di riconoscere le informazioni che giungono ai centri nervosi superiori dai rispettivi organi di senso, sebbene questi siano fisiologicamente e anatomicamente integri. L’agnosia può essere ottica, acustica, tattile (astereognosia), spaziale, ecc.

agrafia [a-; gr. grafia = scrittura] Incapacità di esprimere il pensiero con la scrittura. Di solito è un sintomo dell’afasia (di Broca o di Wernicke) oppure è una forma di aprassia. L’agrafia pura è estremamente rara; se associata ad acalculia e ad agnosia digitale costituisce la sindrome di Gerstmann. SIN. afasia motoria grafica.

alalia [a-; gr. lal(ein) = parlare; -ia] Difficoltà nell’articolare le parole per disturbi organici o funzionali degli organi vocali.

alessia [a-; gr. lex(is) = il parlare; -ia] afasia visiva (incapacità di comprendere il significato delle parole scritte).

amimia [a-; gr. mim(os) = mimo; -ia] Incapacità più o meno completa di accompagnare con atteggiamenti della muscolatura facciale o con gesti uno stato d’animo. È una caratteristica del morbo di Parkinson e della miastenia. Nella amimia recettiva vi è incapacità nella comprensione del significato dei gesti. SIN. afasia gestuale.

amnesia [a-; gr. mnēs(is) = ricordo; -ia] Perdita totale o parziale della memoria, congenita o acquisita, transitoria o permanente, dovuta a traumatismi, lesioni cerebrali o a vari tipi di disfunzioni organiche a carico del cervello.

amusia [gr. amoüsia = mancanza di armonia] Incapacità di riconoscere le varie note e suoni musicali. È in genere conseguente a lesione cerebrale.

anomia [a-; lat. nom(en) = nome; -ia] Incapacità di assegnare il nome corrispondente a un oggetto che tuttavia è stato correttamente riconosciuto. È un tipo di afasia (afasia amnestica).

anosognosia [a-; gr. nosos = malattia; gnōs(is) = conoscenza; -ia] Disfunzione della corteccia associativa parietale che si manifesta con il convinto disconoscimento di avere una malattia.

apatia [a-; gr. pat(hos) = affezione; -ia] Stato psicologico di indifferenza verso l’ambiente e i suoi stimoli con assenza o scarsità di risposte affettive o di emozioni evidenti.

aprassia [a-; gr. prass(ein) = fare; -ia] Incapacità a eseguire un atto volontario e afinalistico nonostante l’integrità degli apparati motori e sensoriali deputati a tale movimento e nonostante l’efficienza dei centri che presiedono alla coordinazione dei movimenti. È generalmente provocata da lesioni dell’emisfero parietale sinistro, talvolta è espressione di un disturbo di ordine psichico associato a un certo grado di demenza (aprassia ideativa).

asimbolia [a-; gr. sumbol(on) = simbolo; -ia] Impossibilità di intendersi in virtù delle parole e dei segni corrispondenti alle idee.

asinergia [a-; sinergia] 1. Alterazione della intensità e della regolare successione dei movimenti elementari che formano un atto volontario. È causata da malattie del cervelletto. 2. Incoordinazione fra più organi o parti corporee che normalmente interagiscono fra loro.

astasia [a-; gr. stas(is) = stazione eretta; -ia] Incapacità di mantenere la stazione eretta in assenza di disturbi della sensibilità o del tono muscolare. È generalmente associata ad abasia. Può indicare una patologia cerebellare, labirintica o psiconevrotica.

astenia [a-; gr. sthen(os) = forza; -ia] Sintomatologia aspecifica caratterizzata da mancanza o perdita della forza muscolare con facile affaticabilità e insufficiente reazione agli stimoli.

astereognosia [a-; stereo-; agnosia] Tipo di agnosia caratterizzata dalla incapacità di riconoscere con la sola palpazione le proprietà fisiche di un oggetto. Generalmente consegue a lesioni, soprattutto tumorali, del lobo parietale. SIN. agnosia tattile, stereoagnosia.

atassia [a-; gr. tax(is) = ordine; -ia] Difetto della coordinazione muscolare con conseguente irregolarità dei movimenti (atassia cinetica) e incapacità di conservare l’equilibrio in posizione statica (atassia statica). È assente qualsiasi lesione paralitica ed è mantenuta la forza muscolare. SIN. dissinergia, atassia muscolare, amiotassia.

atetosi [a-; gr. tith(enai) = porre; -osi] Stato caratterizzato da movimenti di contorsione lenti, involontari, irregolari e continui, soprattutto a carico dei muscoli della faccia, della lingua e delle estremità distali e prossimali degli arti che si accompagnano a lesioni a carico del globo pallido e del talamo. Sono accentuati dalle emozioni, dai movimenti volontari o dal parlare (fenomeno dello straripamento). Si riducono con il riposo e scompaiono nel sonno. Quando sono di breve durata si parla di coreoatetosi.

Le definizioni sono tratte dall’ottimo “Medicina e Biologia – Dizionario enciclopedico di scienze mediche e biologiche e di biotecnologie”, di Delfino, Lanciotti, Liguri, Stefani, pubblicato da Zanichelli.

Terapia, trattamento, cura

Terapia, trattamento, cura: tre termini apparentemente sinonimi, ma in realtà con molte sfumature tra loro.

La terapia, in medicina, è lo studio e l’attuazione concreta dei mezzi e dei metodi per portare alla guarigione delle malattie; obiettivo di una terapia è dunque  riportare uno stato patologico a uno stato sano, o almeno alleviarne i sintomi, renderli più sopportabili.

Trattamento è un termine con un significato più esteso, intendendosi con esso l’applicazione di determinati metodi e processi, o azione di qualsiasi genere e natura (fisica, chimica, materiale, ecc.) a cui si sottopone un organismo o parte di questo, per conseguire determinati effetti. Ha più a che fare con una gestione complessiva. “Trattamento dei tumori”, giusto per fare un esempio, sta a indicare non tanto e non solo la terapia, ma l’approccio globale al problema.

E la cura? Cura, in medicina, è l’insieme delle terapie e dei medicamenti usati per il trattamento di una malattia.

Tuttavia, queste definizioni mi lasciavano comunque un poco insoddisfatto, con questi continui rimandi da un termine all’altro, ed è così che ho pensato di consultare il Dizionario analogico della lingua italiana (nella fattispecie quello di Feroldi, Dal Pra, pubblicato da Zanichelli). Consultare un dizionario analogico vi assicuro che, per chi ama la lingua e le parole, è un’avventura meravigliosa.

Ebbene, a proposito di terapia trovo un elenco vastissimo: terapia sintomatica, farmacologica, ormonale, oncologica, radiante, d’urto, intensiva, riabilitativa… Naturalmente anche in termini composti: farmacoterapia, ormonoterapia, oncoterapia, chemioterapia, radioterapia, ossigenoterapia, ozonoterapia, aerosolterapia, elioterapia, fototerapia, vaccinoterapia, e – credetemi – moltissime altre (provare per credere). Poi, naturalmente, c’è la terapia del dolore, e le terapie palliative. Poi la fisioterapia e le terapie fisiche, con  la chinesiterapia, la chiroterapia, la massoterapia… Quindi la terapia del sonno, ma anche la terapia convulsivante e quella elettroconvulsivante. E, in ambito psicologico, tutte le psicoterapie, con la terapia di gruppo, la terapia di coppia ecc. Vi assicuro, quello che vi ho riportato è un elenco ridottissimo rispetto a quello disponibile. C’è da perdersi…  

Ma, sempre a proposito di meravigliose avventure nei dizionari, alla voce “cura”, sullo Zingarelli, c’è una perla. È tra le “definizioni d’autore”, ed è affidata, per questa voce, alla dottoressa Emanuela Palmerini. Ecco che cos’è la cura, come meglio non la si può definire:

Cura è una parola molto bella.
Cura è farsi carico dei bisogni di un altro: è un processo dinamico tra persona e persona, medico e paziente.
Cura è ascolto e tempo: una terapia ha meno valore se non abbiamo tempo per un colloquio con il paziente.
Cura è professionalità: lavorare con scienza, coscienza e dedizione.
Cura è gentilezza: un gesto semplice, come un saluto al mattino.
Cura è amore per sé: un po’ di bellezza nella nostra giornata.
Cura è scelta: scegliere di porre un altro al centro delle nostre azioni.
Cura è la rivoluzione delle nostre priorità.
Cura è possibile.

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Nell’immagine: Wolfgang Heimbach – Il malato, metà del XVII secolo. Amburgo, Hamburger Kunsthalle.
Nel volume Viaggio intorno al  corpo, della collana Dizionari d’Arte, pubblicata da Electa, a cura di Giorgio Bordin, Marco Bussagli e Laura Polo D’Ambrosio, a proposito di questo quadro si legge: “Il piccolo quadro, che si presenta come una tranquilla realtà domestica, ha certamente significati allegorici e simbolici […]. Cogliendo gli aspetti quotidiani della vita borghese si vuole fare meditare sulla condizione della malattia e sull’importanza del prendersi cura dell’altro quale gesto non scontato di carità familiare”. Il malato risulta infatti “accudito dalle amorevoli cure della moglie e riceve l’affettuoso saluto della piccola figlia, mentre la domestica cambia le lenzuola del letto”.

Le parole del diabete

Sabato 14 novembre si è celebrata la “Giornata mondiale del diabete”. Si è celebrata in questa data perché il 14 novembre del 1891 nacque Frederick Grant Banting, che insieme a Charles Herbert Best nel 1921 scoprì l’insulina, che ha consentito di trattare il diabete rendendolo una malattia controllabile.

Come è noto, ci sono più forme di diabete: di tipo 1 (DM1, conosciuto anche come “giovanile”), di tipo 2 (DM2, conosciuto anche come “alimentare” o “dell’adulto”), gestazionale (o gravidico), LADA, MODY, e altre ancora.

Proviamo a chiarire il significato, per stare nel nostro ambito terminologico, dei molti termini che contraddistinguono il diabete. A proposito, “diabete” deriva dal greco diabainein, “passare attraverso”, con allusione al frequente passaggio di urina provocato dalla malattia (la poliuria, uno dei sintomi principali del diabete).

La prima parola da affrontare non può che essere mellito, parola che accompagna le prime tre forme di diabete citate (DM1, DM2 e gestazionale). “Mellito” deriva dal latino mellitus, che significa “dolce”, ma anche “miele”. Fu l’inglese Thomas Willis nel 1675 ad aggiungere questo termine per il fatto che il sangue  e le urine dei pazienti diabetici hanno un sapore dolce. All’epoca, ma ancora un secolo prima ai tempi di Paracelso (1493-1541), era pratica comune che i medici, per porre diagnosi di diabete, assaggiassero le urine o almeno isolassero lo zucchero nelle urine dei diabetici previa evaporazione e con l’aggiunta di lievito ne provocassero la fermentazione, dimostrando appunto trattarsi di zucchero.

LADA è l’acronimo di Latent Autoimmune Diabetes in Adults e contraddistingue una forma di diabete autoimmune a lenta evoluzione verso l’insulino-dipendenza. MODY, invece, è l’acronimo di Maturity Onset Diabetes of the Young, rara forma di diabete (1-2% dei casi), in cui l’iperglicemia è familiare con un’ereditarietà autosomica dominante.

Poi c’è il diabete insipido, che si accompagna a poliuria con urine diluite e polidipsia imponenti, causato dalla carenza dell’ormone antidiuretico (o ADH o vasopressina) per lesioni di varia natura a carico della neuroipofisi. “Insipido” dal latino insipidum, composto di in- e sapidus, sta per “poco saporito”, il che rimanda alle urine diluite.

Ci sono poi altri termini curiosi correlati al diabete, per esempio bronzino: il diabete bronzino è sinonimo di “emocromatosi”, in cui un elemento caratteristico è la pigmentazione cutanea.

Poi c’è anche il diabete da allossana, forma di diabete mellito indotto sperimentalmente in animali mediante somministrazione di allossana, sostanza che determina una distruzione delle cellule beta delle isole del Langerhans.

Infine, c’è il diabete di tipo 3: un titolo che è stato proposto per la malattia di Alzheimer che deriva dalla resistenza all’insulina nel cervello. Non è ancora un termine medico o una condizione riconosciuta, ma è un termine ora utilizzato nella ricerca che esamina le cause della malattia di Alzheimer.

Sono stato colpito da un’affezione severa

Sì, sono stato colpito da un’affezione severa. Per questo non mi avete letto da una settimana e più a questa parte. Penserete al Covid, anzi alla Covid (“d” sta per disease/malattia e quindi sarebbe femminile, ma è una battaglia persa, tanto vale rassegnarsi). No, per fortuna non era il Sars-CoV-2 (ecco così è giusto). Non funzionava internet, abitando in un borgo selvaggio dimenticato da Dio, dagli uomini e dagli operatori telefonici. Solo il dio del vento (Eolo) dà una piccola mano, ma anche il vento – si sa – va e viene. Nel mio caso più va che viene.

Di questi tempi, insomma una sventura, perché senza internet oggi non puoi fare più nulla: provare per credere.

Però qualche messaggino sul cellulare lo ho ricevuto. Qualcuno anche dai lettori di questo blog. Uno mi ha chiesto se ai tanti termini che ho usato in un precedente articolo per definire la “malattia” (e cioè morbo, patologia, sindrome, disturbo…) si potesse aggiungere “affezione”. Certo che sì. “Affezione” è una parola bellissima, lo Zingarelli ci ha messo a fianco anche il trifoglio, che significa “parola da salvare”. Una ragione di più per usarla. Il primo a usare questa parola, con il significato di “disposizione dell’animo” fu Brunetto Latini (1220-1294/95), scrittore, poeta, politico e notaio italiano, autore di opere in volgare italiano e francese. Ma poi Baldassarre Castiglione (1478-1529; nell’immagine in alto il suo ritratto a opera di Raffaello Sanzio) ne ampliò il significato in “disposizione morbosa, malattia”. Del resto se “affezione” suona di antico, “essere affetto da” è usato comunemente in medicina.

Dunque, ok per “affezione” oltre che malattia, morbo, patologia, sindrome, disturbo. Però, mi raccomando, no a “disordine” e neanche “problema”.

Una “affezione” può essere lieve, moderata, seria, importante, grave… ed ecco che qualche altro lettore mi chiede “ma anche severa”? Bella domanda. “Severo” in medicina è usatissimo, forse perché essendo la maggior parte della letteratura scientifica in inglese viene spontaneo, traducendo in italiano, adagiarsi sul severe inglese. Anche l’Accademia della Crusca lo ha sdoganato (chi è interessato legga qui). Ma questo non vuol dire necessariamente che sia appropriato e nemmeno la scelta migliore. Anche perché il significato di “severo” (vedi Zingarelli) è: 1) che si attiene a rigidi principi morali; 2) che rifugge dall’indulgenza, dai compromessi; 3) austero, serio; 4) sobrio, privo di elementi meramente esornativi (le linee severe…); 5) rilevante.

Insomma, niente a che fare con la malattia. Poi, abbiamo “grave” che è certamente meglio e più appropriato. Quindi il “severo” lasciamolo al babbo di un tempo (come mi scrive un altro lettore) o alla signorina Rottermeier (altra lettrice).

Grazie a tutti questi lettori e lettrici: hanno colto lo spirito del blog, che è intervenire, dire la propria, suggerire, stimolare, proporre.

Malinconia o melanconia?

Il termine è poco usato, appartiene più che altro all’area emotiva e interessa più la psicologia/ psichiatria/psicoanalisi (Freud vi dedicò un trattato nel 1916) che la medicina in senso stretto, ma l’etimo è così bello che va raccontato, anche perché riporta alla storia della medicina.

Dai tempi di Ippocrate si riteneva che a governare l’organismo umano ci fossero quattro umori fondamentali: la bile nera (che corrispondeva all’elemento Terra), la bile gialla (il Fuoco), il flegma (l’Acqua) e il sangue (Aria). Terra, Fuoco, Acqua e Aria erano i quattro elementi fondamentali che, secondo il mondo greco, costituivano la realtà sensibile, e ciascuno di questi si combinava con due degli attributi fondamentali della materia: caldo, freddo, secco e umido. Così, il Fuoco era caldo e secco, l’Aria calda e umida ecc.

Ippocrate aveva anche definito le rispettive sedi organiche: la bile nera nella milza, quella gialla nel fegato, il flegma nella testa e il sangue, va da sé, nel cuore.

Questa teoria, per quanto assai strampalata, dominò la medicina sino al Rinascimento.

Fatta questa necessaria premessa, torniamo alla parola che deriva dal greco melancholía, che è termine composto di mélas (“nero”) e chol (“bile”) quindi, secondo l’antica medicina, “umor nero di natura fredda e secca, secreto dalla bile”. Ecco perché abbiamo dovuto fare la premessa di cui sopra.  

A partire da qui il termine “melanconia” è stato usato con il significato generico di disturbo psichico, e quindi di “male”. Ed ecco che dal mel- si è passati al mal-

E arriviamo ai giorni nostri dove si tende a definirla “ipocondria” e a inserirla nel quadro delle distmie.

Qualche purista o nostalgico, va detto, continua a chiamarla “melanconia” o anche “melancolia”.

In un recentissimo e assai godibile libro (Alla fonte delle parole) la scrittrice e classicista Andrea Marcolongo scrive: “Per attrazione del lemma ‘male’ il buio dentro diventa colpa. Basta una a al posto della e ed ecco che melanconia diventa la nostra malinconia”. E conclude la pagina ad essa dedicata con questa bellissima definizione: “Rivendichiamo l’etimo di melanconia – per un’anima che riposatamente accetta il buio. Fieri del nostro segno più, non meno quando piangiamo e non sappiamo perché. Magari finiremo per scorgere e accettare l’aiuto di una luce”.

Auguri a tutti noi, in questi tempi cupi, di vedere presto una luce.

Nell’immagine, il celebre quadro dal titolo “Malinconia” (1840-41),
di Francesco Hayez (Pinacoteca di Brera, Milano)

Espressioni comuni per definire le malattie

Nei due precedenti articoli abbiamo visto le malattie eponimiche e poi i molti suffissi e prefissi che concorrono a formare i termini con cui si definiscono le malattie. Qui ci occuperemo invece delle espressioni comuni per denominarle, un altro classico caso di “distanza” tra il linguaggio popolare e quello medico, specialistico.

Alcune di queste espressioni comuni hanno l’indubbio vantaggio di rimandare con evidenza alla caratteristica principe del disturbo: è il caso, solo per fare alcuni esempi, del gomito del tennista, del fuoco di sant’Antonio, del labbro leporino o del colpo della strega  (i cui corrispettivi sono l’epicondilite laterale, l’herpes zoster, la cheiloschisi o labioschisi e la lombalgia/dorsalgia).

Altre vanno scomparendo, come il ginocchio della lavandaia, anche perché per fortuna le donne non si inginocchiano più sulla dura pietra dei lavatoi. Però la borsite prepatellare resta, seppure per altre cause.

Tralasciamo i modi di dire che appartengono ad altre epoche, come il mal della pietra (con cui si intendeva la calcolosi o litiasi renale) e l’idropisia (oggi anasarca – edema massiccio e diffuso, sottocutaneo, dovuto all’effusione di liquido nello spazio extracellulare) perché altrimenti non ne veniamo più fuori e andremmo a occuparci di storia della medicina.

Però molte espressioni gergali restano, eccome. Ecco così che molti dicono “ho la cervicale” (ma anche “ho il torcicollo”) oppure “ho la sciatica”: certo queste espressioni sono improprie, ma sarebbe ingeneroso chiedere loro di dire cervicalgia e sciatalgia.

Ci sono poi gli orecchioni per la parotite, la tosse asinina (o canina, o convulsa) per la pertosse. E, a proposito delle malattie dell’infanzia, se una mamma dice che il suo bimbo ha l’acetone, beh, non possiamo pretendere che dica acetonuria o che si esprima dicendo che il piccolo ha un’alterazione dei corpi chetonici.

Curioso anche l’uso del termine popolare costipazione, che per alcuni significa raffreddore o affezione ai bronchi, per altri stitichezza (che poi, va da sé, è la stipsi).

Naturalmente c’è il classico esaurimento nervoso che un è nonsenso, ma che forse sopravvive perché incerto è l’equivalente: nevrastenia? distonia neurovegetativa? nevrosi d’ansia? depressione?
E la debolezza, per astenia.

E infine non si può tacere il brutto male per tumore, un’espressione così infelice, per non dire male incurabile, anche perché sottintende l’assenza di speranza quando invece sappiamo benissimo che oggi ci sono trattamenti risolutivi per la maggior parte dei tumori. Eppure, quante volte lo si legge in un quotidiano o lo si sente in un telegiornale…

Prometto, la prossima volta concludo… ho ancora alcune chicche da raccontarvi sui termini che si usano per definire le malattie.

Prefissi e suffissi nella denominazione delle malattie

Come anticipato nello scorso articolo, eccoci di nuovo a indagare circa l’origine dei nomi delle malattie. Nell’articolo precedente abbiamo trattato delle malattie eponimiche, ma queste sono certo una minoranza: nella maggior parte dei casi, i termini con cui si definiscono le malattie si formano con l’uso di suffissi e prefissi.

Ecco allora -ite (polmonite, epatite, artrite…), suffisso di origine greca (-ites), che ha proprio significato di “malattia”, in particolare infiammatoria.

Poi c’è il suffisso -osi, sempre di origine greca (-osis), per lo più con significato di “affezione degenerativa” (artrosi – si noti la contrapposizione con artrite). Il suffisso -osi, tuttavia, indica genericamente una condizione o uno stato, per cui  ecco termini come dermatosi, nevrosi, psicosi, sclerosi, trombosi

Naturalmente, ecco il suffisso algia (dal greco algos, “dolore”) per definire uno stato doloroso a carico di una qualsiasi struttura anatomica non accompagnato dalla presenza di lesioni macroscopiche (nevralgia, mialgia…).

Tra gli altri suffissi per designare le malattie, ecco -ismo (dal greco -isma) che ha significato di condizione o malattia risultante dalla struttura anatomica indicata nella prima parte del termine o che la implica: si pensi a alcolismo, gigantismo, irsutismo, strabismo e moltissime altre condizioni.

Un altro suffisso molto impiegato è -oma, che ha significato di “rigonfiamento”, “tumefazione” e lo si ritrova, per esempio, in ematoma, ma ha anche significato di “tumore” e infatti la maggior parte delle denominazioni dei tumori si avvale di questo suffisso: carcinoma/adenocarcinoma per i tumori maligni che derivano da un tessuto epiteliale (di rivestimento o ghiandolare), sarcoma per i tumori maligni che si sviluppano nel tessuto connettivo, linfoma/mieloma per quelli linfoemopoietici, astrocitoma/blastoma per quelli derivanti dal tessuto nervoso, melanoma, dai melanociti.

Per le tumefazioni non neoplastiche si usa -cele (meningocele, varicocele, idrocele…).

Ecco poi -iasi, per le malattie parassitarie (amebiasi, giardiasi, teniasi…). Con qualche eccezione, perché, per esempio, a candidiasi si preferisce candidosi. (Anche la psoriasi, pur avendo il medesimo suffisso, non è una malattia parassitaria, ma un’affezione cutanea cronica non contagiosa.)

A concorrere alla denominazione delle malattie si trovano non solo suffissi, ma anche prefissi: è il caso di iper- e ipo- con i rispettivi significati di “al di sopra” e “al di sotto”. Si pensi a ipertensione/ipotensione, iperglicemia/ipoglicemia, ipertiroidismo/ipotiroidismo e moltissimi altri, anche se – va detto – questi prefissi stanno più a indicare una condizione piuttosto che una malattia.

Per indicare alterazioni di funzione si usa dis- (disuria, dispepsia…), mentre per indicare privazione an- (anemia, atrofia…).

Mi sa che anche questo secondo articolo non conclude il tema “da dove vengono i nomi delle malattie”, me ne occorrerà un altro, ma nel prossimo, vi prometto, cercheremo di divertirci di più.

Eponimi in medicina

In medicina si fa (e, ancor più, si è fatto) un ampio uso degli eponimi. Banalmente, questi sono denominazioni fondate sul nome di uno scienziato; più precisamente (il solito insostituibile Serianni) “unità polirematiche in cui un termine generico è accompagnato dal nome di uno scienziato”.1

Il termine deriva dal greco epónymos, cioè sopra (epi-) il nome (ónyma).

Sono moltissime le malattie eponimiche (malattia di Alzheimer, malattia di Parkinson, sindrome di Ménière…), ma eponimi si hanno in abbondanza in anatomia (ansa di Henle, organo spirale di Corti…), istologia (apparato di Golgi…), semeiotica (segno di Babinsky…), metodologia diagnostica (la conta di Addis…), chirurgia (le varie metodiche secondo…) e in altri contesti ancora.

Molto spesso, specie per la denominazione delle malattie, gli eponimi venivano usati quando queste non erano sufficientemente chiare ed erano quindi il solo possibile criterio di inquadramento nosologico.2 E, a riprova di ciò, una volta che la malattia veniva meglio identificata la sua denominazione eponimica veniva meno (anemia di Cooley, ora beta-talassemia major; sindrome di Down, cui oggi si tende a preferire trisomia 21…). Come dire che il progresso delle conoscenze ha oscurato l’uso di alcuni eponimi e fatto giustizia di altri.2 Certo, con le malattie eponimiche si può percorrere la storia e l’evoluzione della medicina, e l’argomento è pertanto affascinante.

Vi sono anche sostantivi derivati da un nome proprio (termini “deonomastici”), come le dita ippocratiche (o ippocratismo digitale), la röntgenterapia (da W. C. Röntgen), lo schwannoma (neurinoma, da T. Schwann).1

In alcune occasioni, il nome che accompagna il termine generico non è di uno scienziato, ma viene dalla letteratura. Ecco allora la sindrome di Pickwick (dal Circolo Pickwick, di Dickens) per definire le caratteristiche cliniche di obesità, sonnolenza diurna, apnee notturne, proprie del protagonista del romanzo. Oppure il bovarismo (per definire quell’atteggiamento psicologico in cui si confondono fantasie e realtà) che prende la sua origine dall’opera Madame Bovary, di Gustave Flaubert. Oppure, la sindrome di Stendhal, che consiste in un’affezione psicosomatica che provoca tachicardia, capogiro, vertigini, confusione e allucinazioni in soggetti messi al cospetto di opere d’arte di straordinaria bellezza: lo scrittore francese Stendhal ne fu personalmente colpito durante il suo Grand Tour effettuato nel 1817 (“Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere”).

Per oggi ci fermiamo qui, ma con il prossimo articolo torneremo sull’origine dei nomi delle malattie, perché il tema è davvero molto interessante. Almeno per me… e per voi, lettori?

  1. Serianni Luca. Un treno di sintomi. I medici e le parole: percorsi linguistici nel passato e nel presente, Milano, Garzanti, 2005.
  2. Bonessa Camillo. Dizionario delle malattie eponimiche. Milano, Raffaello Cortina Editore, 1999. (Nell’immagine dell’articolo, un dettaglio della copertina.)