Gli studi clinici

Provare anche solo a inquadrare gli studi clinici è impresa ardua, perché il materiale a disposizione, la letteratura in merito, sono sterminati. Fatta queste debita premessa, ci proviamo comunque, ovviamente con l’attenzione ai soli aspetti terminologici, come nella natura di questo blog, con l’intenzione di aiutare il lettore a conoscere la definizione di ogni tipo di studio e saper distinguere tra essi.

Dunque, uno studio clinico (o trial clinico) è un tipo di ricerca condotta sul genere umano per raccogliere dati sulla sicurezza e sull’efficacia di nuovi farmaci o  nuovi dispositivi. I potenziali benefici di un nuovo farmaco, o dispositivo (ma anche di un tipo di chirurgia o di assistenza medica), oltre che sicuri ed efficaci, sono in un rapporto favorevole rispetto ai precedenti? La nuova procedura diagnostica o terapeutica è migliore rispetto a quelle utilizzate correntemente? Queste le domande tipo cui lo studio clinico deve rispondere.

Essi possono essere classificati, in base alla metodologia utilizzata, in due grandi categorie.

Gli studi sperimentali, che valutano gli effetti di un nuovo trattamento su un gruppo di soggetti o in una popolazione. Sostanzialmente vogliono rispondere alla domanda “questa nuova procedura diagnostica o terapeutica funziona?”. Comprendono:

  • trial sul campo
    • trial di interventi e comunità
    • trial controllati randomizzati (sperimentazioni cliniche).

Gli studi osservazionali, il cui fine è descrivere le cause e le conseguenze delle malattie, identificare i fattori che ne modificano l’andamento, valutare l’impatto di malattie o condizioni sulla qualità della vita; in altre parole suggerire relazioni tra i fattori per determinare un rapporto causa-effetto. Si distinguono in analitici e descrittivi.

Quelli analitici comprendono i seguenti.

  • Studi longitudinali, cosiddetti perché si realizzano con dati ottenuti nel susseguirsi del tempo. Comprendono:
    • Studi di coorte: uno studio che studia una coorte, ovvero un gruppo di persone con una caratteristica comune che sperimenta un dato evento in un periodo di tempo selezionato. Possono essere prospettici, se seguono l’evoluzione nel tempo dei dati riferiti al momento corrente, o retrospettivi, se utilizzano dati del passato.
    • Studi caso-controllo: uno studio utilizzato per identificare i fattori che possono contribuire al realizzarsi di una data condizione clinica (possono essere solo retrospettivi).
  • Studi trasversali: si basano sull’osservazione di un fenomeno o di un evento clinico in un determinato periodo di tempo («si taglia trasversalmente», da cui il nome).
  • Studi di correlazione geografica o temporale: studi di mortalità per una certa malattia in due o più territori dove la mortalità è messa in rapporto con la diversa esposizione/distribuzione di uno o più fattori di rischio.

Quelli descrittivi comprendono:

  • serie di casi
  • studi ecologici
  • a distribuzione spaziale
  • ad andamento temporale.

Quella sopra esposta è, come detto, la classificazione metodologica degli studi clinici, ma vi sono anche altri criteri di classificazione:

  • a seconda del fattore tempo
    • studi longitudinali (retrospettivo e prospettico)
    • studio trasversale;
  • a seconda del gruppo studiato
    • sulla popolazione – studi ecologici o di correlazione
    • sugli individui – comunicazione di un caso (case report), studio di serie di casi, studio trasversale, studio longitudinale;
  • a seconda dello scopo (quest’ultima è la classificazione fornita dal National Institutes of Health [NIH])
    • trial preventivi
    • trial di screening
    • trial diagnostici
    • trial terapeutici
    • trial sulla qualità della vita
    • trial a uso compassionevole.

Il modello di riferimento degli studi sperimentali è lo studio clinico controllato randomizzato. Quest’ultimo termine significa che ogni soggetto inserito nello studio è assegnato a ricevere in modo casuale (random, appunto) uno fra i trattamenti in studio (per es., farmaco A o farmaco B). Lo scopo della randomizzazione è eliminare interferenze di selezione dei trattamenti, ottenere cioè gruppi di soggetti simili, affinché qualsiasi differenza vista alla fine tra i gruppi possa essere attribuita esclusivamente al trattamento e non a errori sistematici o al caso. Per evitare influenze sullo studio il paziente non deve sapere che farmaco assume, e in questo caso lo studio è definito in cieco; quando anche i medici non sanno quale trattamento è somministrato a ciascun soggetto, si parla di studio in doppio cieco; e in triplo cieco quando ne sono all’oscuro anche coloro che fanno l’analisi dei dati. Ultimamente, poiché il termine “cieco” può sembrare inopportuno verso i non vedenti, si preferisce il termine mascheramento (rispettivamente, singolo, doppio o triplo).

Fonte:

  • De Riu S, Casagrande ML, Da Porto A. Come pianificare uno studio clinico. Il Giornale di AMD 2013, 16:377-383.
  • Mosconi P. Studi clinici: quanti tipi esistono e a che cosa servono? Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri. 18 ottobre 2020.
  • Wikipedia: studio clinico (https://it.wikipedia.org/wiki/Studio_clinico).

Quando le unità di misura le fa il corpo umano

In un precedente articolo ci siamo occupati delle unità di misura. Ci torniamo sopra con un po’ di storia, cosa sempre interessante, tanto più che qui diremo di unità di misura che facevano riferimento al corpo umano e sue parti. Il dizionario della lingua italiana Zingarelli, nella “parola del giorno”, le ha raccolte nel corso di un paio di settimane. Vediamole insieme.

  • Auna – antica misura di lunghezza usata in Francia e in Belgio prima dell’adozione del sistema metrico decimale (aune, dal francone alina, sta per “avambraccio”). 
  • Bema – nell’antica Grecia, unità di misura di lunghezza equivalente a 0,74 metri (dal greco bêma, che significa “passo”, dal verbo báinein, “camminare”). 
  • Braccio – antica unità di misura lineare, specie per stoffe, il cui valore oscillava tra 0,58 e 0,70 metri.
  • Cubito – antica unità di misura di lunghezza (dal latino cŭbitu(m), “gomito”).
  • Dito – misura, quantità e simili corrispondente circa alla larghezza di un dito.
  • Palmo – distanza compresa tra le estremità del pollice e del mignolo della mano aperta e distesa, ma anche antica misura di lunghezza corrispondente all’incirca a un quarto del metro, cioè a 25 cm.
  • Passetto – antica unità di misura di lunghezza italiana, pari a un piccolo passo.
  • Passo – antica unità di misura lineare, variabile, nel tempo e nel luogo, da circa 1,50 m a 2 m, ma anche spazio (di circa 60-70 cm) percorribile con un passo.
  • Pertica – misura agraria romana di lunghezza, pari a circa dieci piedi.
  • Piede – unità di misura di lunghezza inglese corrispondente a 12 pollici o a un terzo di yard, ed equivalente a 30,48 cm.
  • Pollice – misura di lunghezza inglese, pari a 0,914 metri.
  • Spanna – lunghezza della mano aperta e distesa, dalla estremità del mignolo a quella del pollice.
  • Tesa – misura di lunghezza pari all’apertura delle braccia.

Nell’immagine, strumenti di misura nel Rinascimento (Lastra pubblica di misurazione in vigore nella città di Senigallia, 1490).

Come si scrivono batteri e virus?

Proviamo a fare chiarezza e a dare qualche regola circa le modalità di scrittura di batteri e virus, argomento piuttosto controverso.

Per i nomi dei batteri si riportano solitamente il genere (per es., Escherichia) e la specie (per es., coli). Questi nomi scientifici, in latino, vanno composti in corsivo con l’iniziale del primo termine (il genere) in maiuscolo, mentre il nome della specie viene composto in minuscolo (per es., Escherichia coli).

Quando si fa riferimento alla famiglia cui essi appartengono (per es., Enterobacteriaceae), questa – per convenzione – viene composta in tondo, anche se trattasi di nome latino. Idem per ordine, classe, phylum, regno e dominio.

Dopo la prima citazione, all’interno di uno stesso articolo o capitolo, si può contrarre il primo termine con la sola iniziale puntata (per es., E. coli). Attenzione, tuttavia, ai generi che iniziano con la “S” perché essendo molti (si pensi solo a Streptococcus e a Staphylococcus) l’uso della sola iniziale potrebbe creare confusioni, pertanto vanno abbreviati solo quando si è certi che non vi sono ambiguità.

Se non si usa il termine scientifico latino, ma la forma italianizzata (per es., clamidia e non Chlamydia o streptococco e non Streptococcus), ovviamente non si farà più ricorso né al corsivo né all’iniziale maiuscola.

Spesso il genere del batterio è seguito dall’abbreviazione “sp.” o “spp.” (l’abbreviazione al singolare viene spesso usata dopo il nome del genere quando non si riconosce la specie precisa, mentre il plurale lo si utilizza per riferirsi a tutte le specie appartenenti allo stesso genere) e che va composta anch’essa in tondo.

Circa l’uso dell’articolo davanti al nome dei batteri, è sostanzialmente una questione di stile di scrittura. Normalmente, le norme redazionali lo sconsigliano per i nomi latini delle specie equiparandoli a nomi propri. Tuttavia, in un contesto discorsivo, è accettabile (per es., l’E. coli), ma se il nome del batterio è seguito da “spp.”, l’articolo non va usato. Gli inglesi non lo usano mai.

Quanto ai virus, di solito per questi si usano i nomi comuni (per es., citomegalovirus, papillomavirus, herpesvirus,…) per cui non si fa ricorso al corsivo, che invece ovviamente andrà usato se ne si riporta il nome scientifico.

Immagine da: Di Phoebus87 di Wikipedia in inglese, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3072531

Taglio cesareo o parto cesareo?

Un affezionato lettore del blog mi chiede se sia più corretto usare “taglio cesareo” o “parto cesareo”.

Esistono entrambe le forme e sono accettate entrambe, anche se la mia preferenza, per le ragioni di cui dirò, è per “taglio cesareo”, anche se una ricerca su Google ha dato ben 2.050.000 occorrenze per “parto cesareo” contro le 706.000 di “taglio cesareo”.

La storia del taglio cesareo è antichissima. Si ha una prima testimonianza risalente addirittura al 715 a.C. quando una legge romana (la “Lex Cesarea”) prevedeva l’estrazione del feto dalle donne morte durante il travaglio di parto. Questo veniva fatto con lo scopo di salvare il bambino (cosa che peraltro succedeva di rado), perché era vietato seppellire una donna gravida prima dell’estrazione del feto (e in seguito anche per poterlo battezzare). Ebbene, quella “Lex Cesarea” prende il nome  dal verbo latino caedo, caedis, cesi, caesus sumcaedere  cioè “tagliare”. Questa una prima ragione per cui preferire “taglio” a “parto”, e cioè l’origine etimologica. Certo, alcuni potrebbero obiettare che visto che “cesareo” sta già per “taglio” dire “taglio cesareo” è una ripetizione…

I bambini che venivano estratti post-mortem venivano chiamati cesones o césares; è infondata invece l’origine del termine in relazione alla nascita di Giulio Cesare, semplicemente per il fatto che sua madre (Aurelia Cotta) morì anni dopo aver dato alla luce il figlio. Piuttosto è il cognomen “Caesar” che potrebbe derivare dal fatto che un antenato di Cesare nacque dall’utero tagliato (lo racconta Plinio il Vecchio che a proposito di Manlio il Cartaginese e Scipione l’Africano dice che erano chiamati “Cesari” perché estratti dal ventre tagliato della loro madre).

Interessante, poi, sapere che San Cesareo di Terracina è il protettore del parto cesareo. Costui (un giovane diacono martirizzato a Terracina all’inizio del II secolo d.C.), è appunto il santo protettore dei parti cesarei in virtù del suo nome, questo sì legato al grande condottiero romano (il nome Cesareo significa “devoto a Cesare”).

Insomma, per tornare alla domanda del lettore, direi che il parto cesareo è quello che avviene attraverso un taglio cesareo; quindi, darei la preferenza alla correttezza di quest’ultimo termine. Anche la comunità scientifica credo che per la maggioranza la pensi così: riprova ne è che la AOGOI (Associazione Ostetrici Ginecologi Ospedalieri Italiani) parla di “linee guida AOGOI taglio cesareo” (qui).

Termini di posizione e di movimento

Partendo dalla posizione anatomica di riferimento (posizione eretta, talloni uniti, braccia distese e palmi delle mani rivolti in avanti) la posizione di ogni parte del corpo viene definita riferendosi a tre piani ortogonali: sagittali, trasversi e frontali.

Il piano sagittale mediano(o di simmetria) è un piano verticale con orientamento antero-posteriore passante per la metà del corpo. Rispetto ad esso, pertanto, si identificano un lato destro e uno sinistro. Da qui, i termini mediale (la parte più vicina al piano di riferimento) e laterale (quella più lontana). Per gli arti si usano i termini prossimale e distale, cioè la posizione di un determinato punto rispetto all’articolazione di attacco al tronco (la scapolo-omerale per l’arto superiore e la coxo-femorale per l’arto inferiore). Prossimale è il punto dell’arto più vicino all’articolazione e distale quello più lontano.

A destra e sinistra del piano mediano possono essere tracciati infiniti piani sagittali paramediani.

I piani trasversali (o assiali), ortogonali al piano sagittale mediano, sono infiniti piani orizzontali che attraversano il corpo a varia altezza. Rispetto a questo piano di riferimento  ogni parte del corpo può essere definita come superiore (o craniale) o inferiore (o caudale).

I piani frontali (o coronali) sono piani verticali, perpendicolari ai piani trasversi. Rispetto ad essi ogni parte del corpo può essere definita come anteriore (o ventrale) o posteriore (o dorsale).

Dall’incrocio dei piani di riferimento di cui sopra, si creano tre assi, che sono il fulcro dei principali movimenti del corpo.

L’asse sagittale, rispetto al quale i movimenti vengono definiti di inclinazione laterale del rachide e di adduzione/abduzione degli arti.

L’asse trasversale, rispetto al quale i movimenti vengono definiti di flessione/estensione.

L’asse longitudinale, rispetto al quale si hanno i movimenti di torsione del rachide,  di rotazione degli arti, di pronazione/supinazione dell’avambraccio e della mano.

Elenchi e parentesi

Chiudiamo questa sezione dedicata agli aspetti redazionali con alcune indicazioni su come trattare elenchi e parentesi.

Elenchi. Per gli elenchi all’interno del testo, usare lo “stile elenco”, con i classici puntini o trattini. In alternativa, le forme 1) … 2) … 3) … o a) … b) … c) … Quando un elenco, di solito introdotto dai due punti, è costituito da frasi brevi, usare per ogni frase l’iniziale minuscola e il punto e virgola alla fine della stessa; tuttavia, se la frase non contiene segni di punteggiatura ed è particolarmente breve, alla fine di ogni riga si può usare anche la virgola o addirittura nessun segno di interpunzione. Usare comunque il punto alla fine dell’ultima riga dell’elenco stesso. Se l’elenco è invece costituito da frasi lunghe, ciascuna di esse avrà l’iniziale maiuscola e il punto alla fine della stessa: né più né meno, dunque, di una frase normale, che si distinguerà solo per un rientro sul margine sinistro. Questo tipo di elenco, di solito, non viene introdotto, come abbiamo visto sopra, da una frase che finisce con i due punti, ma da una frase di senso compiuto chiusa da un punto. È preferibile che il capoverso che segue l’ultimo punto dell’elenco non sia rientrato, a maggior ragione se vi è una spaziatura.

Parentesi. Le parentesi non sono mai precedute da segni di interpunzione e i segni di punteggiatura vanno sempre dopo la chiusura delle parentesi, tranne quando la frase tra parentesi è di senso compiuto e ha l’iniziale maiuscola: in questo caso, il punto deve essere posto all’interno della parentesi di chiusura, e non all’esterno (analogamente, per eventuali punti interrogativi ed esclamativi). Dopo la parentesi di apertura non deve essere inserito alcuno spazio, così come prima della parentesi di chiusura. All’interno delle parentesi tonde, se necessitano altre espressioni tra parentesi, usare le quadre. Le parentesi quadre si usano anche per contenere indicazioni redazionali, precisazioni da parte dell’editore o del curatore del testo.

Segni e operatori matematici

Gli operatori matematici (+, –, x, :, =) sono preceduti e seguiti da uno spazio, tranne quando i segni + o – indicano un numero positivo o negativo, nel qual caso lo spazio non viene messo (ricordare, per il segno di meno, di usare il trattino medio [Alt + 0150] e non il trattino corto). Anche per i due punti (:), quando indicano una proporzione (per es., il rapporto maschi:femmine è 3:4) non si usa lo spazio né prima né dopo il segno stesso.

Il segno di percento (%) segue il numero senza spazio; preferire sempre il segno grafico alla parola percento. Negli intervalli di percentuali, evitare la ripetizione del segno grafico (per es., 1-2% e non 1%-2%).

I segni di maggiore e minore (> e <) sono preceduti da spazio ma uniti al numero che segue (per es., >2), tranne quando indicano un confronto tra due parametri (per es., p < q).

Attenzione a questi segni e ad altri operatori matematici (in particolare ≥, ≤, ±…): purtroppo, molto spesso, alcuni di questi si “perdono” nel passaggio da Windows a Mac trasformandosi in altro ed è pertanto opportuno evidenziarli affinché in bozza possano essere prontamente verificati. In alternativa, si può usare, per esempio, il simbolo # prima e dopo il segno in oggetto, il che permetterà al compositore di individuarli e conservarli. Questo problema può verificarsi anche con le lettere dell’alfabeto greco (α, β, γ…), peraltro molto usate in medicina (per es., α-litici, β-bloccanti…). Controllare sempre, pertanto, che tali lettere contenute nel file originale siano state conservate in bozza, o, in alternativa, preferire la forma estesa (alfa, beta, gamma…) eventualmente da convertire poi nel segno grafico corrispondente.

Analogo problema può verificarsi con il simbolo di microgrammo (“μg”), che può pertanto essere scritto nel file originale con “mcg” per poi essere convertito a “μg”.

Uso del corsivo

Il corsivo si usa per evidenziare frasi o parole in relazione alla loro rilevanza nel testo, così come per i titoli dei libri, dei periodici, dei film. Ma, e questo è ciò che più qui ci interessa, lo si utilizza anche per quei termini inglesi (o comunque parole straniere) non di uso comune nella lingua italiana. Qui, un elenco dei termini ormai “sdoganati”, che pertanto non richiedono il corsivo.  In teoria, tutti gli altri andrebbero scritti in corsivo. Tuttavia, vanno fatte alcune distinzioni. In una pubblicazione specialistica, per esempio, per molti termini ormai comuni in un determinato ambito si può accettare l’uso del tondo. Molti termini, poi, conflusicono in una sigla o in un acronimo, per cui – come detto nell’apposita sezione – una volta esplicitata la stessa (con l’equivalente  inglese in corsivo), non verranno più usati. Ricordare che i nomi degli studi clinici e delle associazioni vanno composti in tondo e non in corsivo, trattandosi di nomi propri (e non devono mai essere tradotti).

Quando un termine inglese tecnico o specialistico ricorre molte volte nel testo, lo si può scrivere in corsivo solo la prima volta che ricorre, specie se viene spiegato.

In corsivo si indicano anche i nomi dei microrganismi il cui nome scientifico è in latino, con l’iniziale del primo termine (il genere) in maiuscolo e del secondo (la specie) in minuscolo (per es., Neisseria meningitidis).

Anche per alcune espressioni latine come in vitro, in vivo, ex vivo, in situ viene adottato preferibilmente il corsivo.

Infine, molto importante anche perché è un errore comune, non fare mai uso del corsivo e delle virgolette insieme, l’uno esclude le altre, e viceversa.

Come trattare figure e tabelle e loro riferimenti nel testo

Continuiamo con il proporre alcuni temi a carattere redazionale, sempre utili a chi scrive e traduce testi di medicina.

Oggi ci occupiamo di figure e tabelle, di come queste vanno trattate, e loro riferimenti nel testo.

Le figure devono essere di buona qualità, in un formato adatto per la stampa (per es., jpeg). Non inserire mail le figure nel testo di Word e per esse non usare mai tale formato. Se protette da copyright, occorre disporre dell’autorizzazione al loro utilizzo. Le fotografie che ritraggono pazienti potenzialmente identificabili devono essere accompagnate da un permesso scritto per il loro uso o, in alternativa, trattate di modo da nasconderne gli occhi o altri elementi che consentano il riconoscimento. Analogamente, il nome del paziente che spesso compare in alcune immagini (come in quelle ecografiche, nelle lastre Rx, o nelle strisce di elettrocardiogrammi) va rimosso.

Didascalie. La didascalia di una figura viene posta sotto la figura stessa (se non a lato per esigenze grafiche) e ha il punto finale (mentre nelle tabelle il titolo e l’eventuale testo che segue è collocato sopra la tabella stessa senza il punto finale).

Nella didascalia, la parola Figura viene solitamente composta in bold, seguita dal numero della stessa (secondo una numerazione consecutiva che rispetta l’ordine con cui le figure sono citate nel testo), dal punto e quindi dal testo della didascalia (per es., Figura 1. …). Molto spesso i numeri sono due: prima quello del capitolo in cui si trova la figura e poi il numero progressivo della figura all’interno del capitolo stesso – in questo caso il secondo numero non è seguito dal punto (per es., Figura 1.1 oppure Figura 1-1).

Qualsiasi sigla che compaia nella figura va esplicitata nella didascalia e segue il testo della stessa (per es., AD = malattia di Alzheimer, oppure AD, malattia di Alzheimer). Se le sigle sono più di una è consigliabile indicarle seguendo l’ordine alfabetico, anche se taluni preferiscono elencarle in base alla loro posizione nella figura, andando dall’alto in basso e da sinistra a destra.

Se va citata la fonte della figura, tale citazione segue la didascalia e la legenda delle sigle; solitamente si usano le forme “Da … ; riproduzione autorizzata” [l’equivalente dell’inglese from], o “Per gentile concessione di …” [l’equivalente dell’inglese with permission]. Se la figura è stata modificata rispetto all’originale, ciò va precisato, di solito nella forma “modificata da…”.

Rimandi nel testo alle figure. Ogni figura deve avere il suo rimando nel testo, solitamente tra parentesi e in bold (per es., Figura 1.1, eventualmente anche nella forma contratta [Fig. 1.1]). Se si rimanda a una figura più di una volta, per i rimandi successivi al primo non si usa più il bold e si mette il “vedi” davanti (per es., vedi Figura 1.1).

Quando, invece, il rimando alla figura è contenuto nel testo stesso, in forma discorsiva, si privilegiano forme del tipo “… come si può osservare nella Figura 1.1 …”, anche qui preferibilmente con la F di figura in maiuscolo.

Gli autori di pubblicazioni scientifiche possono trovare indicazioni generali su come trattare le figure (oltre che per tutti gli altri aspetti relativi alla loro stesura) nel documento “Recommendations for the Conduct, Reporting, Editing, and Publication of Scholarly Work in Medical Journals”, a cura dell’International Committee of Medical Journal Editors (ICMJE), scaricabile al seguente link: http://www.icmje.org/recommendations/    

L’edizione italiana (“Requisiti di Uniformità ICMJE”), seppure al momento si tratti della traduzione di una precedente versione, è disponibile sul sito della Fondazione GIMBE.

Inoltre, ogni Editore di pubblicazioni scientifiche pubblica in un’apposita sezione del proprio sito internet le specifiche indicazioni per gli autori.

Le tabelle devono riportare informazioni in modo conciso ed essere efficaci; in molte occasioni possono anche sostituire il testo riducendone la lunghezza. Ogni colonna deve avere un’intestazione breve o abbreviata; usare solo i fili di suddivisione indispensabili (solitamente quelli che separano le intestazioni dei dati, mentre sono spesso superflui quelli che dividono le colonne tra loro e ancor più le righe); ricordare di allineare i valori numerici al punto delle migliaia o alla virgola dei decimali e che solitamente non si usa il punto alla fine delle righe di testo interne alla tabella.

Come già detto, nelle tabelle il titolo e il testo che segue sono posizionati sopra la tabella stessa (a differenza delle figure) e non è previsto il punto finale.

Per il resto, valgono le medesime considerazioni fatte sopra per le figure. Si aggiungerà solo che se le abbreviazioni e le sigle contenute in una tabella sono molte possono essere seguite dai simboli, in sequenza, *,†,‡,§,||,¶,**,††,‡‡ che verranno poi ripresi nella legenda per la loro esplicitazione.

Le unità di misura

Il blog di terminologia medica riprende le pubblicazioni dopo la pausa estiva.

Dedicherò qualche articolo a “questioni redazionali”, credo sempre utili a chi scrive e traduce in medicina. Ricordo che sono stati già pubbblicati articoli su come redigere la bibliografia, come si scrivono i numeri, e su come trattare i termini composti.

Oggi ci occupiamo di come trattare e utilizzare correttamente le unità di misura. Argomento non inutile e non balzano, perché nonostante le indicazioni siano molto chiare, precise, e inequivocabili, gli errori che si fanno nell’uo delle unità di misura sono ancora molti. Basti pensare a gr per grammo (anziché g), Kg per kilogrammo (anziché kg), sec per secondo (anziché s), min. per minuto (anziché min), mt per metro (anziché m).

Occorre sempre fare riferimento al Sistema Internazionale di unità di misura (SI). Esse si distinguono in fondamentali e derivate (qui le tabelle insieme a quella dei prefissi moltiplicativi).

Le misure di lunghezza, altezza, peso e volume devono essere riportate in unità metriche (metro, chilogrammo, litro) o nei loro multipli/sottomultipli decimali, le temperature in gradi Celsius (nella forma con lo spazio tra il numero e l’unità, per es., 37 °C e non 37°C o 37° C), e la pressione arteriosa in millimetri di mercurio (mmHg).

Le unità di misura dei sistemi britannico o statunitense (once, piedi ecc.) andranno pertanto convertite in quelle SI. Ci sono tuttavia contesti in cui è opportuno, se non necessario, mantenere l’unità di misura originale: basterà affiancarla al valore in unità SI.

Ricordare che, in linea di massima, i simboli sono scritti in minuscolo, a eccezione di quelli in cui l’unità di misura è eponima o deriva dal nome di una persona (per es., Watt). Tuttavia, spesso si preferisce l’uso della elle maiuscola (L) per il litro, anche perché la elle minuscola (l) può essere confusa in molti font con il numero 1. Spesso, coloro che fanno ricorso alla L maiuscola per litro usano anche la L maiuscola per i multipli e sottomultipli (come cL e mL per centilitro e milliltro): in realtà questo accorgimento non solo non è necessario ma francamente sbagliato.

Le unità di misura non vanno mai puntate e la forma al plurale rimane invariata (per es., Watt e non Watts).

Il sistema SI usa gli spazi per separare le cifre intere in gruppi di tre (per es., 1 000 000) e la virgola come separatore tra i numeri interi e quelli decimali. Nel 1997 ha concesso la possibilità di usare il punto, ma solo per i testi il cui linguaggio principale è l’inglese.

Tra i numeri e l’unità di misura va inserito uno spazio (3 m).

Per le valute, solitamente, se si usa il simbolo questo è anteposto rispetto al valore numerico della stessa (per es., € 1200), se si usa la forma in lettere questa è posposta (per es., 1200 euro).

Nell’immagine, strumenti di misura nel Rinascimento (Lastra pubblica di misurazione in vigore nella città di Senigallia, 1490).