Il processo di definizione di una malattia

Qualsiasi testo di patologia/clinica medica nel presentare una malattia, subito dopo la definizione, sviluppa di solito una scaletta piuttosto precisa che permette di inquadrare la malattia stessa in maniera completa. Vediamo insieme questo approccio esaminando il significato dei singoli termini.

Eziologia [voce dotta, lat. tardo aetiolŏgia, dal gr. aitiología, composto di aitia, causa, e logia, discorso, trattazione]. È lo studio delle cause che determinano una malattia. Spesso si trova ancora “etiologia”, ma il termine è ormai obsoleto.

Epidemiologia [voce dotta, composto di epidemia e -logia, discorso, trattazione]. È la disciplina medica che studia i meccanismi di diffusione delle malattie, la distribuzione degli eventi legati alle malattie in diversi gruppi di persone.

Patogenesi [dal gr. páthos, affezione, sofferenza, e génesis, nascita]. Indaga le modalità d’insorgenza, il meccanismo di sviluppo, di una malattia. Spesso questa sezione comprende anche l’anatomia patologica che, avvalendosi di analisi di biopsie o di campioni chirurgici, tratta le alterazione morfologiche e microscopiche degli organi e dei tessuti colpiti dai processi morbosi.

Manifestazioni cliniche, o anche quadro clinico, o semplicemente clinica o, ancora, sintomatologia, è la sezione che esamina il complesso dei sintomi (e segni) che caratterizzano una malattia. Ricordiamo che per sintomo si intende ogni manifestazione che accompagna una malattia e che viene avvertita dal paziente. Il segno, invece, è l’alterazione rilevata dal medico sul paziente affetto da una patologia.

Complicanze (e non complicazioni) descrivono gli eventi anomali, le aggravanti di malattia che possono svilupparsi durante il suo decorso.

Diagnosi [voce dotta, dal gr. diágnōsis, composto di diá, attraverso (alcuni segni), e gnôsis, conoscenza]. È la definizione di una malattia attraverso l’anamnesi, i segni e i sintomi, gli esami di laboratorio e quelli strumentali. Infatti, questa sezione, nella descrizione di una malattia, comprende anche la diagnosi di laboratorio e dovrebbe estendersi alla diagnosi differenziale, l’esame critico dei sintomi per distinguere malattie tra loro consimili.

Prognosi [voce dotta, lat. tardo prognōsi(m), dal gr. prógnōsis, previsione, a sua volta da progignskein, prevedere, giudicare prima, composto di pró, prima, e gignskein, conoscere, di origini indeuropee]. È il giudizio clinico sull’evoluzione futura della malattia in esame. La prognosi può essere favorevole o sfavorevole, fausta o infausta, benigna o grave (ma non cattiva!). Si usa il termine riservata quando non è possibile fare alcuna previsione sull’esito di una malattia data la gravità del quadro clinico.

Terapia o trattamento [gr. therapeia, cura]. Vengono usati come sinonimi, in realtà la terapia è quella branca della medicina che si occupa della ricerca di tutti quei rimedi atti a favorire la guarigione e ad alleviare le sofferenze dei malati. La terapia può essere chirurgica, medica, fisica, ecc. Il trattamento ha un significato un poco più esteso indicando qualsiasi procedura o terapia finalizzata a combattere le malattie e a migliorare le condizioni del malato; spesso, infatti, si usa il termine gestione.

Prevenzione [voce dotta, lat. tardo praeventiōne(m), da praevĕntus, part. pass. di praevenīre, prevenire]. Descrive l’attuazione dei provvedimenti più adeguati a impedire che si manifesti la malattia. Va distinta dalla profilassi
che è riferita all’insieme delle misure igieniche, sanitarie e farmacologiche adottate per evitare l’insorgere o il diffondersi di malattie.

PS: andate a visitare la nuova pagina Dizionario: completamente rifatta, accorpa tutte le lettere, prima presentate singolarmente, e ingloba tutti gli approfondimenti sui singoli lemmi. Uno strumento utilissimo per chi traduce e scrive di medicina e per i redattori medico-scientifici.
Nell’immagine: Pablo Picasso, Scienza e carità, 1897, Barcellona, Museo Picasso.

Che tipo di medicina sei?

Medicina di precisione, medicina personalizzata, medicina di genere, medicina difensiva… sono alcune delle molte estensioni del termine medicina (“scienza che si occupa dello studio delle malattie, della loro prevenzione, diagnosi e terapia”; deriva dal latino mĕdicus ‘medico’, a sua volta dal verbo mederi, ‘curare’, ‘medicare’) che ricorrono spesso ultimamente. Ma ne conosciamo l’esatta definizione?

La medicina “classica”, specie per ciò che riguarda gli approcci terapeutici e la ricerca, è orientata verso la popolazione piuttosto che verso il singolo individuo; non così la medicina di precisione che è “quell’insieme di strategie di prevenzione e trattamento che tengono conto della variabilità individuale”, secondo la definizione di Francis Collins, direttore dei National Institutes of Health. In altre parole, l’attenzione viene spostata sul singolo paziente. Un esempio classico è dato dall’impiego in terapia degli anticorpi monoclonali, capaci di riconoscere un singolo piccolo antigene. Enormi le ricadute, specie nel campo dell’oncologia dove sono le caratteristiche genetiche della cellula tumorale a dettare nella maggioranza dei casi l’indirizzo terapeutico.1

L’intervento medico rivolto alla singola persona che ha una determinata alterazione comporta che la medicina di precisione è anche personalizzata, e ciò genera confusione nei due termini. E allora come la mettiamo? Ci viene in aiuto il professor Mauro Minelli, responsabile per il sud Italia della Fondazione di Medicina Personalizzata, che ci dice come nella medicina di precisione è importante l’identificazione di specifici meccanismi generatori di patologia all’interno degli organi, ovvero di specifici bersagli sensibili all’interno delle cellule”, mentre nella medicina personalizzata si allarga il campo alle caratteristiche individuali; in altre parole, significa decisioni mediche, pratiche, farmaci e terapie calibrate sul singolo caso, a seconda dell’organismo e delle caratteristiche individuali del paziente.2

Oltre alla medicina di precisione e alla medicina personalizzata, altre tipologie di medicina con dizioni che iniziano per -P- concorrono a formare la cosiddetta “Multiple-P Medicine” (medicina preventiva, medicina partecipativa, medicina predittiva), sui cui significati torneremo.

La medicina di genere, invece, è la branca della medicina che studia le differenze biologiche e socioculturali tra uomini e donne e l’influenza di questi fattori sullo stato di salute e di malattia, nonché sulla risposta alle terapie.3

Lo scopo della medicina di genere è conseguentemente quello di garantire l’appropriatezza diagnostico-terapeutica rendendo possibili trattamenti su misura del singolo individuo.4

Attenzione: questo tipo di approccio non si basa sulla semplice distinzione sessuale in quanto il sesso si riferisce alle differenze biologiche, che sono universali e immutabili in quanto geneticamente determinate, mentre il genere riferisce a caratteristiche psichiche, sociali e culturali, che possono condizionare le differenze biologiche e che possono essere modificate (per es., in rapporto a etnia, età, modo di vivere, cibo).

La medicina difensiva, infine, non ha niente a che fare con quanto sopra, ma di questo tempi è di altrettanta attualità perché consiste nella pratica con la quale il medico difende sé stesso contro eventuali azioni di responsabilità medico-legali che conseguono alle cure mediche prestate. La medicina difensiva può essere positiva o negativa. La prima si esplica nel ricorso a servizi aggiuntivi diagnostici o terapeutici non necessari (analisi, visite o trattamenti), come per esempio diminuire la possibilità che si verifichino esiti negativi per il paziente in seguito a un intervento sanitario. Quella negativa, invece, si attua con l’astensione dall’intervento di cura, nel caso in cui il medico eviti di occuparsi di determinati pazienti o di eseguire interventi ritenuti ad alto rischio5, annullando la possibilità che si verifichino esiti negativi per il paziente imputabili al medico.

Fonti:

  1. Medicina di precisione e personalizzata: nuove frontiere per cancro, asma, psoriasi e malattie neurologiche, al sito Humanitas
  2. Medicina di precisione e personalizzata: le nuove sfide del sistema sanitario, al sito Network digital 360
  3. Ministero della Salute., Il genere come determinante di salute, in Quaderni del Ministero della Salute, n. 26, aprile 2016.
  4. Franconi F., Paradigmi della ricerca di genere, in The italian journal of gender-specific medicine 2015, vol. 1, n. 1.
  5. Studdert DM, Mello MM, Sage WM, et al. Defensive medicine among high-risk specialist physicians in a volatile malpractice environment, sulla rivista Jama

Per le voci medicina di genere e difensiva, oltre alle fonti citate, vedi Wikipedia alle medesime voci.
Nell’immagine, Il dottor Paul Gachet, di Vincent van Gogh, 1890, Parigi, Musée d’Orsay.

Farmaco o medicinale?

I termini “farmaco” e “medicinale” (e anche “prodotto medicinale”) non sono la stessa cosa, anche se sono stati usati nel corso degli anni come sinonimi; di recente si è preferito usare il termine medicinale, che viene impiegato anche nelle direttive comunitarie che disciplinano questo settore.

Citiamo testualmente dal sito salute.gov:

Si intende per medicinale:

  1. ogni sostanza o associazione di sostanze presentata come avente proprietà curative o profilattiche delle malattie umane;
  2. ogni sostanza o associazione di sostanze che possa essere utilizzata sull’uomo o somministrata all’uomo allo scopo di ripristinare, correggere o modificare funzioni fisiologiche, esercitando un’azione farmacologica, immunologica o metabolica, ovvero di stabilire una diagnosi medica.

Sempre sul detto sito si specifica che “tutti i medicinali sono costituiti da principi attivi e da vari eccipienti. Il principio attivo è il componente dei medicinali da cui dipende la sua azione curativa, il medicinale vero e proprio.
Gli eccipienti sono invece componenti inattivi del medicinale, privi di ogni azione farmacologica”.

E, ancora, si precisa che i medicinali possono distinguersi in: medicinali preparati in farmacia (galenici, a loro volta suddivisi in magistrali [se preparati in base a una prescrizione medica destinata a un determinato paziente]; eofficinali [se preparati in farmacia in base alle indicazioni della Farmacopea europea o della Farmacopea Ufficiale della Repubblica Italiana e destinati ad essere forniti direttamente ai pazienti serviti da tale farmacia) e medicinali di origine industriale. L’immissione in commercio di questi ultimi deve essere autorizzata dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) o dall’Agenzia Europea per i medicinali (EMEA).

Il medicinale generico, invece, è un medicinale che è bioequivalente rispetto a un medicinale di riferimento, con brevetto scaduto, autorizzato con la stessa composizione quali-quantitativa in principi attivi, la stessa forma farmaceutica, la stessa via di somministrazione e le stesse indicazioni terapeutiche. Tuttavia, il  termine “generico”, si è dimostrato infelice in quanto percepito dal pubblico come simile, ma non uguale al medicinale di riferimento indicato per la stessa patologia. Per questa ragione i prodotti “generici” sono stati ridefiniti medicinali equivalenti (L. 149 del 26 luglio 2005).

Fonte:
http://www.salute.gov.it/portale/temi/p2_6.jsp?lingua=italiano&id=3615&area=farmaci&menu=med

Trattino sì, trattino no

Avendo messo nel dizionarietto la voce “post partum”, un lettore mi ha chiesto “Quindi ‘post’ (ma anche ‘pre’) va sempre staccato dalla parola che segue? Post sinaptico, post prandiale, ecc.?”.

Questa, potrei dire scherzosamente, è una domanda che avrei preferito non mi venisse fatta. Perché la risposta è complessa e arbitraria. Nel senso che (cito l’Accademia della Crusca) “in questo ambito la variabilità degli usi è decisamente elevata”. Quindi, ciascuno fa un po’ a modo suo. Tuttavia, proviamo a  dare qualche indicazione di base.

In linea di massima, se appena possibile, specie se il termine è entrato nell’uso comune, si tende a evitare il trattino dopo “pre” e “post”, per cui avremo, per esempio, prepuberale, premestruale, postoperatorio (attenzione, se devo scrivere “nel periodo pre- e postoperatorio” il trattino dopo “pre” sta per la parola sottesa, cioè operatorio).

Formazioni, però, del tipo post-frontale, post-maturazione, solo per fare due esempi, richiedono istintivamente il trattino: è una questione di “orecchio”, il termine tutto attaccato suonerebbe male, o – se preferite – non sarebbe bello a vedersi. Più in generale, il trattino si usa quando separa un termine poco usato, non ancora entrato nell’uso comune, o molto specialistico (più con il “post” che con il “pre”).

Il trattino, poi, è obbligato quando separa due consonanti uguali: l’esempio classico è post-traumatico, impossibile da scriversi tutto attaccato. Quando però si tratta di vocali, la cosa è più complessa, basti pensare a preeclampsia, che si scrive solitamente tutto attaccato con la doppia “e”. Altri usano comunque il trattino (pre-eclampsia) per la regola di cui sopra (e cioè separare lettere uguali).

Ma ci sono anche i casi in cui i termini stanno preferibilmente separati senza trattino: è il caso di post partum, post mortem, forse per via del latino, o dell’uso non comune del termine.

E, si faccia attenzione, mi sono limitato al pre e al post, perché altrimenti andiamo a ingarbugliarci ulteriormente. Prendiamo, per esempio, meta-analisi, che si trova tranquillamente anche come metaanalisi e metanalisi, o intra-arterioso, intraarterioso, intrarterioso.

Insomma, tranne poche regole certe, è una questione di sensibilità e scelte individuali, l’importante (che è poi quello che dico sempre anche per molti altri contesti in cui è difficile stabilire regole certe) è essere uniformi all’interno dello stesso testo/articolo; una uniformità assoluta non esiste.

Si riparte!

Mi scuso con i lettori del blog per la rarefazione degli articoli negli ultimi tempi. Purtroppo, gli impegni della vita reale (mi verrebbe da dire della real life, per usare un termine tanto usato negli studi clinici) allontanano dall’accudimento delle proprie passioni e interessi.

Ma l’intenzione è rimediare da subito. Anzi, grandi progetti sono in cantiere. Presto, un’ampia sezione dedicata ai cosiddetti “tecnicismi collaterali”, per comprendere sempre meglio il linguaggio specifico della medicina.

Poi, un’altra sezione sulle centinaia di prefissi e suffissi in medicina, indispensabile per capire l’etimologia e la costruzione delle parole in questa disciplina.

E, con ogni probabilità, una nuova sezione di statistica medica per conoscere e approfondire i relativi termini, spesso così ostici.

Naturalmente, il completamento del dizionarietto, a partire dalla lettera P che trovate nell’apposita sezione. I termini compresi in questa lettera meritano più di un approfondimento.

Prendiamo, per esempio, i termini primitivo e primario. Oggi, specie nelle traduzioni, per via dell’inglese primary (i soliti sciagurati calchi semantici…), è tutto un fiorire di “primario”: infezione primaria, processo primario, malattia primaria e così via. In realtà, il termine non è sempre corretto, anzi. “Primario” esprime infatti un concetto di prevalenza, di importanza, come nel caso di una malattia i cui effetti dominano il quadro clinico, che sarà dunque senz’altro “primaria”. Ma quando il contesto è quello temporale, cioè qualcosa “che viene prima”, va impiegato il termine “primitivo”. Per esempio, un primo tumore è senz’altro “primitivo” e non “primario”, la sede originaria di un processo patologico è “primitiva”, e così via.

Pressione arteriosa e pressione sanguigna non sono la stessa cosa, anche se usati quasi sempre indifferentemente. Quest’ultima è la forza con cui il sangue viene spinto dalla pompa cardiaca nei vasi; prende il nome di “pressione arteriosa” quando scorre nel circolo arterioso, e “pressione venosa” nel circolo venoso. Quando si parla di misurazione è più corretto usare “pressione arteriosa” perché lo sfigmomanometro rivela la pressione che il manicotto esercita sull’arteria brachiale.

Anche palma e palmo della mano non sono la stessa cosa. La “palma” è la superficie interna della mano (opposta al “dorso”), compresa tra la fine del polso e l’attaccatura delle dita (in termini più tecnici, la superficie compresa tra il carpo e l’articolazione delle prime falangi delle dita); il “palmo” (o “spanna”) è la distanza compresa tra le estremità del pollice e del mignolo della mano aperta e distesa. La distinzione è piuttosto sottile e il genere maschile è sempre più diffuso anche per la prima accezione, al punto che l’Accademia della Crusca consiglia l’uso della forma “palma” nei registri più formali, mentre si può impiegare quella maschile in tutti gli altri casi.

Pronto Soccorso (preferibilmente con le iniziali maiuscole), termine tanto usato in questo periodo, non varia al plurale, mentre sentiamo dire, erroneamente, “pronti soccorso”, o “pronti soccorsi”.  

Infine, una raccomandazione che sembra superflua, ma che nella mia esperienza non lo è: acetaminophen si traduce paracetamolo e non “acetaminofene” (di nuovo, i calchi semantici…), così – come già detto – epinephrine è “adrenalina” e non “epinefrina” e molti casi analoghi.

A prestissimo e, mi raccomando, si riparte e dunque seguitemi! Oggi, poi, pare che non sia solo il blog a ripartire ma l’interno nostro Paese, finalmente nelle mani migliori. P, dunque, come la Primavera che ci aspetta, e quale migliore Primavera di quella di Botticelli nell’immagine di apertura?

Meglio sensibili o specifici?

Per anni mi sono fatto questa domanda riguardo al lavoro che stavo facendo. È meglio che il metodo di indagine che sto adottando per verificare un’ipotesi includa il maggior numero di risultati possibili, con il rischio di individuare anche soluzioni errate? Oppure è preferibile focalizzarsi su un obiettivo più mirato, ma che potrebbe escludere una serie di alternative? Ovvero, è meglio essere sensibili o specifici?

Sembra una domanda banale, ma all’atto pratico non lo è per niente.

Iniziamo con le definizioni, noiose ma utili. La sensibilità di un test misura la proporzione di risultati positivi correttamente assegnati (test positivo = soggetto malato); al contrario, la specificità di un test misura la proporzione di risultati negativi correttamente assegnati (test negativo = soggetto sano). Di conseguenza, test troppo sensibili saranno più proni a dare risultati falsamente positivi e test troppo specifici saranno più inclini a dare risultati falsamente negativi.

Ora facciamo un esempio: dovete sviluppare un test rapido per lo screening dei pazienti con HIV. Lo volete più sensibile o più specifico? La risposta corretta è certamente la prima: preferite che qualcuno a cui viene somministrato il test risulti positivo anche se non lo è (falso positivo). Certo, il poveraccio passerà due settimane d’inferno, ma verrà fatta nel frattempo un’indagine più approfondita (più specifica) che escluderà l’infezione. Al contrario, un test che restituisca più falsi negativi direbbe a un positivo che va tutto bene, e quella persona sarebbe convinta di non avere l’infezione, non riceverebbe cure immediate che potrebbero modificare il corso della patologia, e sarebbe libera di infettare altri.

È un esempio estremo, ma rende l’idea di come la scelta dei metodi che decidiamo di adottare per monitorare un determinato fenomeno influenzi il risultato che vogliamo ottenere.

La verità è che ogni volta che dobbiamo prendere delle decisioni basate su dati, inevitabilmente introduciamo dei bias.

Tutti ricorderete la storia della Principessa sul pisello. Il Re in cerca di sposa era molto rigoroso sui criteri per la scelta della sua futura moglie, e nella sua ricerca della perfezione era disposto a rifiutare alcune vere principesse piuttosto che correre il rischio di sceglierne una falsa. Aveva insomma un bias di specificità. Sua sorella la Regina, stanca di vedere il fratello triste per la futilità della sua ricerca e decisa a correre il rischio di accettare una falsa principessa come cognata pur di trovargli una sposa, inventò il trucco del pisello sotto ai venti materassi. Lei aveva un bias di sensibilità.

Entrambi erano prevenuti, ma fra i due la Regina aveva capito un aspetto importante, che è anche il punto della nostra questione: non aveva confuso lo screening con la diagnosi.

Nello screening, si dovrà fare un’identificazione di qualcosa che ancora non è riconosciuto, filtrandolo da una varietà di osservazioni apparentemente tutte uguali. Per essere efficaci sarà necessario avere un meccanismo di “call and recall” che permetta di “invitare” e seguire le risorse identificate (dati, pazienti, clienti) e che garantisca un’inclusione alta (almeno il 70%) del nostro target.

Una volta individuati i sospetti, potremo confermare le nostre ipotesi andando a stressare quello che è emerso dalla nostra scrematura.

La diagnosi è più costosa e più rischiosa, e vogliamo tenercela come risorsa da utilizzare una volta che siamo già orientati. La sua utilità dovrà sempre controbilanciare i rischi, oppure sarà inutile sostenerne i costi.

Insomma, siate prima sensibili. Avete sicuramente da guadagnarci.

Carlo Barbera

Dal bugiardino al FI e RCP

Nel linguaggio comune il documento che si trova all’interno della confezione di un medicinale è spesso ancora chiamato “bugiardino”. L’origine di questo termine è curiosa: come ci ricorda l’Accademia della Crusca il bugiardo, in Toscana, in area senese, era la locandina dei quotidiani esposta fuori dalle edicole e da qui, riducendo le dimensioni del foglio, si è arrivati a denominare bugiardino il foglietto dei medicinali. Ma c’è di più, visto che questo foglietto, specie in tempi passati, esaltava i pregi e l’efficacia del medicinale sorvolando sugli effetti indesiderati dello stesso, nell’insieme questo foglietto risultava all’opinione comune un “bugiardino” che diceva piccole bugie o, quanto meno, ometteva informazioni importanti per il prodotto, che sarebbero potute risultare compromettenti.

Fortunatamente, negli ultimi anni, sia per precise disposizioni legislative in materia, sia per la maggiore attenzione dei consumatori nell’assumere farmaci, il bugiardino contiene tutte le informazioni necessarie riguardo al farmaco. Ma qual è il suo nome corretto?

Ce ne sono due: Foglio Illustrativo (FI) (non più “foglietto”, come lo si chiamava spesso sino a  poco tempo fa) e Riassunto delle Caratteristiche del Prodotto (RCP). Si tratta di  documenti che devono essere approvati dall’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) o dalla Commissione Europea; sono parte integrante del provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio (AIC) del medicinale e raccolgono tutte le informazioni fondamentali sull’efficacia, la sicurezza, l’uso clinico, le controindicazioni, le avvertenze e le precauzioni d’impiego del medicinale emerse durante la valutazione scientifica delle procedure autorizzative.

Non solo, sono considerati documenti “dinamici”, perché vengono aggiornati ogni qualvolta il monitoraggio sulla sicurezza e l’efficacia dei medicinali segnala dati che vanno appunto comunicati.

FI e RCP hanno due “registri linguistici” differenti: il primo è destinato al paziente e dovrebbe essere contraddistinto da un linguaggio chiaro e facilmente comprensibile: rivolgendosi a un pubblico eterogeneo dal punto di vista del livello di scolarizzazione e sociale, prima della sua approvazione deve essere opportunamente testato per verificarne la leggibilità. Le informazioni riportate nel FI sono suddivise in sei paragrafi:

1. che cos’è e a cosa serve il medicinale in questione;
2. cosa si deve sapere prima di assumerlo;
3. come assumerlo;
4. possibili effetti indesiderati;
5. come conservarlo;
6. contenuto della confezione e altre informazioni.

L’RCP, invece, è destinato principalmente agli operatori sanitari (medici, farmacisti, infermieri) e pertanto utilizza un’appropriata terminologia medico-scientifica. Esso deve contenere le seguenti informazioni: denominazione del medicinale e sua composizione, patologie per cui è indicato, dose raccomandata e modalità di somministrazione (distinte per fasce di età e per specifici sottogruppi di pazienti), controindicazioni, avvertenze e precauzioni d’uso (per es., uso in gravidanza e/o durante l’allattamento), eventuali interazioni con altri medicinali, effetti sulla capacità di guidare veicoli, effetti indesiderati, meccanismo d’azione e altro.

Gli RCP e i FI di tutti i medicinali autorizzati in Italia sono consultabili attraverso la Banca Dati dei Farmaci, cui si può accedere dal sito web dell’AIFA.

Bibliografia
Accademia della Crusca. Perché il foglietto illustrativo dei farmaci viene chiamato bugiardino? 3 giugno 2005.
Agenzia Italiana del Farmaco – AIFA. Riassunto delle Caratteristiche del Prodotto e Foglio Illustrativo.

La nomenclatura dei farmaci

Nelle pagine del dizionarietto che sto pubblicando sul blog ho puntualizzato in diverse occasioni il nome corretto del principio attivo di diversi farmaci. Per molti prodotti, infatti, la modalità di scrittura del principio attivo è tutt’altro che lineare. Alcuni, in particolare, si prestano a più varianti. Mi piace sempre fare il caso del metotrexato, che spesso si trova scritto come metotrexate, o metotressato, o methotrexato e tutte le possibili varianti combinate (la “o” piuttosto che la “e” come lettera finale, la “x” piuttosto che la doppia “s”, la “t” piuttosto che il “th”). Ma gli esempi che si possono fare sono davvero moltissimi.

È evidente che trattandosi di materia delicatissima occorre avere regole precise, e queste regole (piaccia o non piaccia) le detta l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) che sul sito permette in un’apposita stringa di ricerca di individuare la corretta modalità di scrittura di ogni principio attivo. Analoga funzione e autorevolezza svolge l’Informatore farmaceutico, che si basa sui dati elaborati da www.codifa.it Questo volume, fondato nel lontano 1941 dal mitico dottor Lucio Marini, ora pubblicato da EDRA, raccoglie tutte le informazioni sui farmaci e sui prodotti salutistici ed è utilizzato e apprezzato quotidianamente da tanti professionisti della salute.

Ma torniamo alla nomenclatura dei farmaci. Il principio attivo (o nome comune o non proprietario) è solo un modo, per quanto il più comune, di fare riferimento a un farmaco. Esiste naturalmente il nome commerciale (o nome brevettato o depositato  o trade name), la formula chimica, il nome chimico (regolamentato dalla IUPAC [International Union for Pure and Applied Chemistry]) e spesso altri nomi, sinonimi o sigle.

Un esempio? L’acido acetilsalicilico, che è il principio attivo, conosciuto anche come ASA (nome alternativo), la cui formula chimica (“bruta o molecolare”) è C9H8O4, messo in commercio in moltissime formulazioni (Aspirina®, Aspirinetta®, Aspro®, Flectadol®, Vivin®…) e classificato come analgesico per quanto riguarda la categoria farmacoterapeutica (ma anche con proprietà antinfiammatorie, antipiretiche e antiaggreganti). Per indicare questa c’è una apposita combinazione di lettere e numeri che per l’acido acetilsalicilico è N02BA01, che è poi la sua classificazione Anatomica Terapeutica Chimica o ATC. Vediamo di cosa si tratta.

Il sistema di classificazione anatomico, terapeutico e chimico viene usato per la classificazione sistematica dei farmaci, è controllato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ed è un sistema di classificazione alfa-numerico costituito da cinque livelli gerarchici.

Il primo livello contraddistingue il gruppo anatomico principale, contraddistinto da una lettera dell’alfabeto (14 in tutto):

A: apparato gastrointestinale e metabolismo
B: sangue e organi emopoietici
C: apparato cardiovascolare
D: apparato tegumentario e pelle
G. apparato genito-urinario e ormoni sessuali
H: sistema endocrino (esclusi ormoni sessuali di cui sopra) e insulina
J: agenti antinfettivi per uso sistemico
L: antineoplastici e immunomodulatori
M: sistema muscolare, sistema scheletrico e articolazioni
N: sistema nervoso
P: prodotti antiparassitari, insetticidi e repellenti
R: apparato respiratorio
S: organi di senso
V: vari

Il secondo livello contraddistingue il gruppo terapeutico principale, contraddistinto da un numero di due cifre.

Il terzo livello contraddistingue il sottogruppo terapeutico farmacologico, contraddistinto da una lettera dell’alfabeto.

Il quarto livello contraddistingue il sottogruppo chimico/terapeutico farmacologico, contraddistinto da una lettera dell’alfabeto.

Il quinto livello contraddistingue il sottogruppo chimico, contraddistinto da un numero di due cifre, specifico per ogni singola sostanza chimica.

Per cui, tornando all’acido acetilsalicilico N02BA01, la N sta per “Sistema nervoso” (gruppo anatomico principale), 02 per “Analgesici” (gruppo terapeutico principale), B per “Altri analgesici e antipiretici” (sottogruppo terapeutico farmacologico), A per “Acido salicilico e derivati” (sottogruppo chimico/terapeutico farmacologico) e 01 per “Acido acetilsalicilico”.

Un altro esempio? Il diazepam, contraddistinto dal codice N05BA01: N per “Sistema nervoso”, 05 per “Psicolettici”, B per “Ansiolitici”, A per “Derivati benzodiazepinici” e infine 01 per “Diazepam”.

I rischi non sono tutti uguali

Se il vostro medico vi dicesse che assumendo una determinata medicina potreste ridurre del 26% il vostro rischio d’infarto, questa percentuale potrebbe sembrarvi decisamente elevata e farvi considerare positivamente l’idea di iniziare il trattamento. Se invece vi dicesse che la riduzione del rischio di infarto sarebbe del 2,3%, pensereste che con un valore così basso non valga la pena assumere la terapia. E se entrambi i valori fossero veri contemporaneamente?

No, non si tratta di un indovinello, ma del fatto che esistono diversi modi di descrivere un rischio, ciascuno dei quali non cambia il rischio in sé, ma può influenzare profondamente come noi lo percepiamo.

Ma andiamo con ordine. Gli studi che vengono fatti per determinare l’impatto che un certo intervento avrà sulla salute pubblica possono presentare i risultati in modi differenti, e il rischio ne è un esempio emblematico. Il rischio non è altro che la probabilità che un evento si verifichi. Quando un risultato viene definito dalla presenza (o assenza) di un evento, questo è generalmente espresso come rischio assoluto (RA), ovvero la percentuale di persone in cui si verifica l’evento all’interno di un gruppo. Va da sé che se applichiamo questo ragionamento a uno studio clinico, nel quale un gruppo di controllo viene comparato a un gruppo trattato con un farmaco, sarà possibile calcolare il rischio assoluto del gruppo di controllo (detto anche rischio di base) e il rischio assoluto del gruppo trattato. Sottraendo il rischio assoluto del gruppo trattato al rischio assoluto di base otterremo la riduzione del rischio assoluto (RRA), un valore che serve a dare l’indicazione dell’impatto che un determinato intervento terapeutico ha sulla popolazione studiata. Tuttavia, l’RRA ci racconta solo una parte della storia: qual è infatti il rischio che rimane nella popolazione trattata di sperimentare comunque l’evento?

Per rispondere a questa domanda, dobbiamo comparare il rischio che l’evento si verifichi nel gruppo trattato con il rischio che l’evento si verifichi nel gruppo di controllo. Per farlo, dobbiamo ricorre a un valore chiamato rischio relativo (RR).

I dati che ho citato all’inizio dell’articolo riguardano uno degli studi fondamentali per l’approvazione e l’immissione in commercio del Lipitor®, il farmaco più venduto della storia. Nello studio clinico volto a dimostrare l’efficacia del Lipitor nel ridurre il rischio di infarto, il rischio assoluto è risultato pari al 9% nel gruppo di controllo e al 6,7% nel gruppo trattato. Di conseguenza, la sua riduzione (una sottrazione) risultava pari al 2,3%. Ma il rischio relativo, detto anche rischio residuale, era pari al 74% (rapporto tra i due valori), e quindi la sua riduzione era del 26%. Tornando all’esempio iniziale, in entrambi i casi il medico non vi sta mentendo: avremo effettivamente il 26% di possibilità in meno di avere un infarto rispetto a chi non assume il farmaco, ma in termini assoluti avremo un rischio d’infarto inferiore del 2,3%. Vedete bene come sia possibile, presentando l’uno o l’altro valore, convincere della bontà o meno di una decisione.

Insomma, il messaggio fondamentale è che rischio relativo e rischio assoluto sono due valori ugualmente importanti per comprendere un fenomeno e per prendere una decisione informata se adottare o meno una determinata soluzione terapeutica, e pertanto andrebbero sempre presentati entrambi.

Sfortunatamente, sono i grandi numeri a far vendere i giornali (e i farmaci), e la tendenza comune è un uso preferenziale e improprio del rischio relativo, per fare apparire migliori gli effetti di un intervento.

Carlo Barbera

qui il suo precedente articolo

Resistere alle tentazioni

Ho letto qui che i bambini concepiti o nati durante la pandemia da Covid-19 potrebbero essere chiamati “i coronial”, così come con il termine “millennial” si indicano coloro che sono cresciuti all’inizio del millennio.

Qualcuno si è spinto oltre attribuendo alle sigle a.C. e d.C. il significato di “avanti Covid” e “dopo Covid”.

Non voglio scrivere l’ennesimo articolo sulle nuove parole e modi di dire che la pandemia ha generato, piuttosto vi rimando al bellissimo articolo del linguista Giuseppe Antonelli su la Lettura, il supplemento culturale del Corriere, del 13 dicembre.

Però mi ha molto colpito un articolo sul portale della Treccani (potete leggerlo qui) in cui, in risposta a un lettore, ci si interroga come definire un paziente affetto da Covid: “covidoso”, “covidico” o “covidotico”?

In detto articolo si scrive che “covidoso” è da escludere, in quanto trattasi di un vocabolo già esistente con il significato di “bramoso”, e simili.

“Covidico”, che usa il suffisso -ico come in “rachitico”, “anoressico”, “bulimico”, non sarebbe corretto perché questo suffisso indica appartenenza, modo (come in atmosferico, filosofico, biologico…).

Resterebbe dunque “covidotico”, per analogia con “tubercolotico”, “cirrotico”, “scoliotico” e simili.

Non so come la pensate voi, io trovo tutte queste parole semplicemente orribili, per non dire sciagurate. “Affetto da Covid” mi sembra più che sufficiente e anche elegante, e in fondo richiede solo qualche battuta in più.

Altre parole non mi piacciono per nulla, come “tamponato” per i soggetti che hanno effettuato il tampone, così come non vedo perché non usare termini italiani equivalenti per droplets, contact tracing e mille altri termini inglesi che imperano.

Ancor prima di questa pandemia e dei riflessi nella lingua che essa ha comportato, ho sempre invitato a non usare nel linguaggio della medicina termini come “biopsiare”, “complessizzare”, “profilassare”… poi, vedete voi.

Io, per quanto mi riguarda, suggerirei di resistere a queste tentazioni.