Terminologia dei disturbi neurologici

I termini che definiscono molti disturbi neurologici sono – dal punto di vista linguistico ed etimologico – affascinanti. Scopriamoli insieme, partendo da quelli preceduti dalla “a” privativa (nel greco, la lettera alfa usata come prefisso attribuisce al termine significato di privazione).

abasia [a-; gr. bas(is) = marcia; -ia] Impossibilità, parziale o totale, di camminare per incoordinazione dei movimenti. Può essere causata da disturbi psichici (per esempio, isterismo), da patologia cerebellare o vestibolare in assenza di anestesia o paralisi muscolare. Coesiste spesso con l’incapacità di stazione eretta (astasia).

abulia [a-; gr. boül(ē) = volontà; -ia] Perdita della iniziativa motoria e della volontà di agire. Il soggetto vive in uno stato di indecisione assoluta e di dubbi penosi, fino a giungere a una condizione di inerzia e di immobilità pressoché totali.

acalculia [a-; lat. calcul(are) = calcolare; -ia] Incapacità a eseguire anche i più elementari calcoli matematici.

acinesia [a-; gr. kinēs(is) = movimento; -ia] Povertà di ogni movimento che viene iniziato con notevole lentezza. Si riscontra nel morbo di Parkinson in cui l’individuo inizia con difficoltà i movimenti, per esempio la deambulazione che, in un secondo momento, diviene più spedita.

adiadococinesia [a-; gr. diadochos = successivo; kinēs(is) = movimento; -ia] Impossibilità o ridotta capacità di compiere in rapida successione movimenti opposti quali pronazione e supinazione degli arti superiori. Si tratta di una incoordinazione motoria associata a danno della funzionalità cerebellare.

afasia [a-; gr. fas(is) = parola; -ia] Perdita o riduzione della capacità di esprimersi mediante il linguaggio parlato o scritto, associata ad anomalie nella comprensione del linguaggio parlato e della lettura. È conseguente a una lesione circoscritta dei centri del linguaggio situati nella corteccia cerebrale. Si distinguono due forme classiche di afasia: l’afasia motoria di Broca e l’afasia sensoriale di Wernicke.

ageusia [a-; gr. geüs(is) = gusto; -ia] Perdita totale del senso del gusto. Può essere centrale, per emorragie o tumori nei centri gustativi, oppure periferica, per esempio in seguito a distruzione delle papille gustative o a processi che abbiano leso le fibre gustative (diabete, nevriti tossiche o infiammatorie, nefropatie croniche). Esiste inoltre un’ageusia su base funzionale nevrotica.

agnosia [a-; gr. gnōs(is) = conoscenza; -ia] Incapacità di riconoscere le informazioni che giungono ai centri nervosi superiori dai rispettivi organi di senso, sebbene questi siano fisiologicamente e anatomicamente integri. L’agnosia può essere ottica, acustica, tattile (astereognosia), spaziale, ecc.

agrafia [a-; gr. grafia = scrittura] Incapacità di esprimere il pensiero con la scrittura. Di solito è un sintomo dell’afasia (di Broca o di Wernicke) oppure è una forma di aprassia. L’agrafia pura è estremamente rara; se associata ad acalculia e ad agnosia digitale costituisce la sindrome di Gerstmann. SIN. afasia motoria grafica.

alalia [a-; gr. lal(ein) = parlare; -ia] Difficoltà nell’articolare le parole per disturbi organici o funzionali degli organi vocali.

alessia [a-; gr. lex(is) = il parlare; -ia] afasia visiva (incapacità di comprendere il significato delle parole scritte).

amimia [a-; gr. mim(os) = mimo; -ia] Incapacità più o meno completa di accompagnare con atteggiamenti della muscolatura facciale o con gesti uno stato d’animo. È una caratteristica del morbo di Parkinson e della miastenia. Nella amimia recettiva vi è incapacità nella comprensione del significato dei gesti. SIN. afasia gestuale.

amnesia [a-; gr. mnēs(is) = ricordo; -ia] Perdita totale o parziale della memoria, congenita o acquisita, transitoria o permanente, dovuta a traumatismi, lesioni cerebrali o a vari tipi di disfunzioni organiche a carico del cervello.

amusia [gr. amoüsia = mancanza di armonia] Incapacità di riconoscere le varie note e suoni musicali. È in genere conseguente a lesione cerebrale.

anomia [a-; lat. nom(en) = nome; -ia] Incapacità di assegnare il nome corrispondente a un oggetto che tuttavia è stato correttamente riconosciuto. È un tipo di afasia (afasia amnestica).

anosognosia [a-; gr. nosos = malattia; gnōs(is) = conoscenza; -ia] Disfunzione della corteccia associativa parietale che si manifesta con il convinto disconoscimento di avere una malattia.

apatia [a-; gr. pat(hos) = affezione; -ia] Stato psicologico di indifferenza verso l’ambiente e i suoi stimoli con assenza o scarsità di risposte affettive o di emozioni evidenti.

aprassia [a-; gr. prass(ein) = fare; -ia] Incapacità a eseguire un atto volontario e afinalistico nonostante l’integrità degli apparati motori e sensoriali deputati a tale movimento e nonostante l’efficienza dei centri che presiedono alla coordinazione dei movimenti. È generalmente provocata da lesioni dell’emisfero parietale sinistro, talvolta è espressione di un disturbo di ordine psichico associato a un certo grado di demenza (aprassia ideativa).

asimbolia [a-; gr. sumbol(on) = simbolo; -ia] Impossibilità di intendersi in virtù delle parole e dei segni corrispondenti alle idee.

asinergia [a-; sinergia] 1. Alterazione della intensità e della regolare successione dei movimenti elementari che formano un atto volontario. È causata da malattie del cervelletto. 2. Incoordinazione fra più organi o parti corporee che normalmente interagiscono fra loro.

astasia [a-; gr. stas(is) = stazione eretta; -ia] Incapacità di mantenere la stazione eretta in assenza di disturbi della sensibilità o del tono muscolare. È generalmente associata ad abasia. Può indicare una patologia cerebellare, labirintica o psiconevrotica.

astenia [a-; gr. sthen(os) = forza; -ia] Sintomatologia aspecifica caratterizzata da mancanza o perdita della forza muscolare con facile affaticabilità e insufficiente reazione agli stimoli.

astereognosia [a-; stereo-; agnosia] Tipo di agnosia caratterizzata dalla incapacità di riconoscere con la sola palpazione le proprietà fisiche di un oggetto. Generalmente consegue a lesioni, soprattutto tumorali, del lobo parietale. SIN. agnosia tattile, stereoagnosia.

atassia [a-; gr. tax(is) = ordine; -ia] Difetto della coordinazione muscolare con conseguente irregolarità dei movimenti (atassia cinetica) e incapacità di conservare l’equilibrio in posizione statica (atassia statica). È assente qualsiasi lesione paralitica ed è mantenuta la forza muscolare. SIN. dissinergia, atassia muscolare, amiotassia.

atetosi [a-; gr. tith(enai) = porre; -osi] Stato caratterizzato da movimenti di contorsione lenti, involontari, irregolari e continui, soprattutto a carico dei muscoli della faccia, della lingua e delle estremità distali e prossimali degli arti che si accompagnano a lesioni a carico del globo pallido e del talamo. Sono accentuati dalle emozioni, dai movimenti volontari o dal parlare (fenomeno dello straripamento). Si riducono con il riposo e scompaiono nel sonno. Quando sono di breve durata si parla di coreoatetosi.

Le definizioni sono tratte dall’ottimo “Medicina e Biologia – Dizionario enciclopedico di scienze mediche e biologiche e di biotecnologie”, di Delfino, Lanciotti, Liguri, Stefani, pubblicato da Zanichelli.

Scienziati in azienda

Da oggi il nostro blog si apre anche alle recensioni di libri in tema.

Ci piace segnalare qui, appena pubblicato, Scienziati in azienda, di Carlo Barbera, Senior Project Manager, Corporate R&D presso un’azienda farmaceutica.

Pentothal, Prozac, Brufen, Ventolin…

Prodotti diventati di uso comune che si sono resi indispensabili per la cura di importanti patologie. Sono tutti nati dal lavoro di scienziati dediti alla ricerca costante di terapie in grado di migliorare la vita di milioni di persone. Uomini e donne straordinari, accomunati da una caratteristica: essere al servizio dell’industria farmaceutica, fatto che spesso li ha relegati all’anonimato, visti in maniera diversa dai ricercatori accademici, come fossero in qualche modo inferiori ai loro colleghi universitari.

Attraverso i loro racconti, ciascuno nato dall’integrazione di diverse fonti e caratterizzato dagli avvenimenti che hanno segnato la vita del protagonista, si ripercorrono gli eventi che hanno contraddistinto oltre un secolo di storia dell’industria farmaceutica: dagli esordi di farmaci che hanno permesso di trovare cure a malattie prima considerate intrattabili alla nascita delle Big Pharma, dall’evoluzione della tecnologia alla crescita della conoscenza medica e scientifica.

Partendo dalla fine dell’Ottocento con l’invenzione dell’Aspirina fino ad arrivare ai giorni nostri con il vaccino contro il coronavirus, il libro racconta venticinque scienziati che, con le loro scoperte, hanno cambiato per sempre la storia della medicina e della società.

Le “storie” di questi scienziati sono avvincenti. L’autore ha scelto la narrazione in prima persona, come se fossero loro stessi a raccontarsi. E questo permette al lettore un maggior coinvolgimento, come se potesse partecipare alle loro vite, essere lì nel momento della scoperta, magari casuale (perché, si sa, il destino ci mette sempre la sua). È il caso di Gerhard Domagk, che sperimentò il Prontosil sulla piccola Hilde, la sua bambina, che scendendo le scale con un ago in mano se lo era infilato nel palmo: una banale puntura cui era seguita una grave infezione. Per altro, il Prontosil (il primo chemioterapico antibatterico sviluppato in commercio), Domagk lo stava studiando da tempo, giusto per dire che il destino può ben poco se dietro non c’è ricerca, lavoro, appassionata dedizione alla causa.

O il caso di Özlen Türeci, che con il marito, Uğur Şahin, ha realizzato il vaccino anti-Covid 19 Comirnaty. I due, che un giorno del 2002, all’ora di pranzo, avevano lasciato brevemente il laboratorio per andare all’anagrafe  e sposarsi, prima di rimettersi i camici da laboratorio e tornare subito al lavoro, stavano lavorando a un progetto di ricerca sull’immunoterapia per le cellule tumorali. Quando capirono cosa stava succedendo a partire dai primi focolai a Wuhan, chiamarono il presidente di BioNTech per dirgli che da quel preciso istante ogni risorsa dell’azienda sarebbe stata dedicata a combattere un virus. Sappiamo tutti come è andata a finire e quanta gratitudine dobbiamo loro.  

Questo libro vuole essere un omaggio a dei personaggi che, con il loro lavoro, hanno saputo cambiare profondamente gli stili di vita e la nostra cultura e che, spesso, sono rimasti sconosciuti al pubblico per il loro lavoro dietro le quinte, per l’epoca in cui hanno vissuto, o per il semplice fatto di lavorare per la “sporca industria”; ma vuole anche rendere omaggio a tutti quei ricercatori che hanno contribuito e contribuiscono, come tanti “militi ignoti”, ad aggiungere tasselli di conoscenza che costituiscono le basi per la prossima scoperta essenziale, in grado di spingere più avanti le frontiere della salute.

La Terminologia Anatomica

Muscolo peroniero o muscolo peroneo? Arteria rettale o arteria emorroidale o arteria emorroidaria? Nervo acustico o uditivo? Scissura centrale o scissura di Rolando o solco centrale?

Sono solo alcuni degli infiniti esempi delle varianti in cui troviamo uno stesso termine anatomico nei vari trattati di anatomia disponibili.

Purtroppo, proprio laddove occorrerebbe una terminologia certa, univoca, questa non c’è. In Italia, infatti, una terminologia anatomica ufficiale non c’è, a differenza di altri Paesi. O meglio, esistono fonti ufficiali che consentono di prendere visione di ogni termine anatomico in latino e in inglese, ma i problemi, inevitabilmente, sorgono con la traduzione degli stessi, per cui si assiste alle difformità di cui sopra.

Cerchiamo comunque di offrire qualche riferimento certo: la Terminologia Anatomica (TA) raccoglie la nomenclatura internazionale standard di riferimento nell’ambito dell’anatomia umana. Essa raccoglie indicazioni terminologiche relative a circa 7500 strutture anatomiche umane macroscopiche. È redatta in lingua latina con traduzioni ufficiali in inglese, spagnolo e portoghese (come si vede, manca quella italiana). La prima edizione risale al 1988 quando l’opera sostituì la Nomina Anatomica, lo standard precedente, solo in lingua latina, che dal 1955 era adottato come standard internazionale per i nomi delle parti del corpo umano.

La Terminologia Anatomica si deve al Federative International Committee on Anatomical Terminology (FICAT), un gruppo di esperti creato dalla International Federation of Associations of Anatomists (IFAA); esso era precedentemente conosciuto come Federative Committee on Anatomical Terminology (FCAT). Nel 2011 la TA è stata pubblicata on line su inziativa del Federative International Programme for Anatomical Terminology (FIPAT) ed è sul suo sito (https://fipat.library.dal.ca/) che si possono trovare la terminologia anatomica (seconda edizione, 2019), embriologica, istologica e neuroanatomica; quelle oroanatomica e antropologica sono in via di sviluppo.

Sul sito della FIPAT la TA è divisa in cinque parti: nella prima, l’anatomia generale (come i piani e le linee di riferimento, e le parti del corpo umano); nella seconda, l’apparato muscoloscheletrico; nella terza, gli apparati digerente, respiratorio e genito-urinario; nella quarta, l’apparato cardiovascolare, il sistema endocrino e quello linfatico; nella quinta, l’apparato tegumentario, il sistema nervoso e gli organi di senso. A ciascuna parte corrisponde un pdf in cui si trovano più colonne con il termine latino di partenza (ed eventuali sinonimi), la traduzione inglese (UK e US) e altri sinonimi in lingua inglese: una fonte completa e affascinate, oltre che, naturalmente, utilissima per usare il termine anatomico appropriato.

Come redigere la bibliografia

La bibliografia è una componente fondamentale di ogni testo scientifico, è pertanto  essenziale sapere come redigere correttamente le voci bibliografiche.

Quello che segue è un esempio di voce bibliografica scritta correttamente:

Mantovani A, Sica A, Sozzani S, et al. The chemokine system in diverse forms of macrophage activation and polarization. Trends Immunol. 2004 Dec;25(12):677-86. doi: 10.1016/j.it.2004.09.015. PMID: 15530839 Review.

(Ho scelto come esempio, non a caso, una pubblicazione del professor Alberto Mantovani, l’immunologo italiano più citato al mondo.)

Gli autori: come si vede, si riportano i primi tre, seguiti da “, et al.” Alcuni preferiscono arrivare a sei autori, ma è francamente troppo. Ogni autore compare con il cognome seguito dall’iniziale del nome, non puntata. In caso di più nomi le iniziali saranno accorpate, sempre senza punto.

Il titolo dell’articolo: va riportato per esteso, senza iniziali maiuscole, tranne per la prima parola o per eventuali nomi propri.

Il titolo della rivista: va riportato nella forma indicata dalla National Library of Medicine (www.ncbi.nlm.nih.gov/nlmcatalog/journals). Tranne che per le riviste con un unico nome (per es., Cancer) il titolo è sempre abbreviato (per es., The New England journal of medicine diventa N Engl J Med, il Journal of the American Medical Association diventa JAMA ecc.). Va riportato in tondo e non in corsivo.

Seguono i dati relativi alla pubblicazione: anno, mese, numero/i che identificano l’elemento, intervallo di pagine. Quest’ultimo è di solito nella forma abbreviata (nell’esempio riportato, 677-86), ma è consentito riportare anche la forma estesa (677-686). Si noti l’assenza di spazio tra  i numeri, ma anche in questo caso è consentito metterli (il che è anche più elegante).

Infine il doi e il PMID: il primo (digital object identifier – identificatore di un oggetto digitale) è uno standard che consente l’identificazione duratura e univoca di oggetti di qualsiasi tipo all’interno di una rete digitale, e l’associazione ad essi dei relativi dati di riferimento – i metadati – secondo uno schema strutturato ed estensibile. Il secondo (PubMed Identifier) è un numero unico assegnato a ciascuna citazione su PubMed. Non è indispensabile che questi dati siano sempre presenti nella voce bibliografica, ma certamente la loro indicazione è di grande aiuto per chi utilizzerà quella bibliografia.

Naturalmente, ci sono infinite variabili: quando gli autori sono organizzati come gruppo di ricerca o come editor, quando si tratta di un supplemento (nel qual caso si userà la forma “Suppl” seguita dal numero dello stesso e dall’intervallo di pagine preceduto da “S” [per es., Suppl 2:S93-9]), o di una parte (per es., Pt 2), oppure quando si precisa la tipologia della pubblicazione (editoriale, lettera, abstract…), o il classico “Epub” seguito da data che identifica un articolo pubblicato on line prima che a mezzo stampa (per es., Epub 2002 Jul 5).

E poi, naturalmente, i libri, i volumi, la cui citazione segue regole diverse, per esempio quella che segue è la citazione dell’ultima edizione del mitico Harrison’s:

Jameson JL, Fauci AS, Kasper DL, Hauser SL, Longo DL, Loscalzo J, editors. Harrison’s Principles of internal medicine. 20th edition. New York: Mc Graw Hill; 2018.

Si noti la sequenza autori (in questo caso editor), titolo del volume, numero edizione, città sede dell’editore, editore, anno. Si faccia caso anche alla punteggiatura (due punti dopo la città, punto e virgola dopo l’editore).

Infine, visto che nel precedente articolo ci siamo occupati di numeri, come vanno trattati i numeri che nel testo rimandano alla bibliografia? Vanno composti, preferibilmente, ad apice; in alternativa, nel corpo testo, tra parentesi tonde o quadre. Qualora vi siano due numeri che rimandano ad altrettante voci bibliografiche non inserire uno spazio tra questi, ma solo la virgola separatrice; se invece i numeri rimandano a un intervallo di voci bibliografiche, usare il trattino (per es., 1-4 [che rimanda alle voci bibliografiche da 1 a 4]). È preferibile posizionarli dopo un eventuale segno di punteggiatura, senza spazio.

PS: naturalmente qualcuno porrà delle obiezioni a quanto sopra, è comprensibile a due condizioni: la prima liberarsi da consuetudini errate purtroppo molto radicate, la seconda rispettare comunque l’uniformità. Ciò che è inaccettabile in uno stesso testo è trovare voci bibliografiche redatte con criteri diversi: se per esempio usate sino a sei autori che siano sempre sino a  sei, e non tre; se usate l’intervallo esteso per i numeri di pagina, che non ci sia anche quello abbreviato; se usate gli spazi tra i numeri che identificano una pubblicazione che non ci siano poi voci senza detti spazi.

Come si scrivono i numeri?

I numeri cardinali vanno espressi in cifre:

  • per indicare sé stessi come entità aritmetiche;
  • quando indicano una quantità definita (per es., lo studio è stato condotto su 309 pazienti);
  • per indicare riferimenti interni (per es., pagina 6; capitolo 4);
  • con le unità di misura (per es., il paziente è alto 1 m e 74 cm e pesa 70 kg);
  • nelle percentuali (per es., il 51% dei pazienti);
  • per le età (per es., il paziente aveva 84 anni);
  • nelle date (per es., 31 maggio 2021);
  • per le ore (per es., alle ore 23.14);
  • negli intervalli numerici quando i due numeri sono separati dal trattino (per es., 3-6 volte);
  • nelle frazioni (quantità numeriche costituite dal rapporto fra due valori interi);
  • per i tempi misurati (per es., 2 h, 24 min e 13 s),
  • per i valori monetari con l’indicazione della valuta in simbolo (per es., 10 €).

Vanno invece espressi in lettere:

  • nelle espressioni linguistiche colloquiali o convenzionali (per es., i primi cento giorni del presidente);
  • quando non si riferiscono a un valore numerico preciso, come per le cifre approssimate (per es., in oltre cento studi…);
  • nelle date intese come ricorrenze (per es., il Primo Maggio);
  • per le ore in contesti discorsivi (per es., intorno alle cinque del pomeriggio);
  • negli intervalli numerici e nelle frazioni, sempre in contesto discorsivo (per es., da tre a sei volte; due terzi dei pazienti);
  • per i valori monetari quando l’indicazione della valuta è espressa anch’essa in lettere (per es., dieci euro);
  • nelle indicazioni di secolo (per es., nel ventesimo secolo; nell’Ottocento);
  • a inizio periodo, dove non si usano mai i numeri in cifre (talvolta basta girare la frase [per es., 10.127 pazienti sono stati inclusi nello studio diverrà Nello studio sono stati inclusi 10.127 pazienti]).

Ci sono poi delle forme ibride (per es, l’infezione ha interessato oltre 2 milioni di persone; 27 mila pazienti [anche nella forma 27mila, senza spazio]).

Inoltre, anche se indicano una quantità numerica precisa, i numeri “brevi” (da uno a dieci, o anche venti) possono essere scritti in lettere anziché in cifre (per es., quattro pazienti), sempre che non si riferiscano a unità di misura, date, riferimenti interni e simili (vedi sopra).

Per separare le migliaia è sempre più diffuso, e anche consigliato, lo spazio separatore, o meglio ancora il carattere di “spazio unificatore” (in Word, Ctrl + Maiusc + barra spaziatrice) per evitare che un numero che dovesse trovarsi a fine riga  possa essere spezzato da un a capo. Ricordare che la separazione delle migliaia avviene solo con i numeri di almeno cinque cifre (per es., 10 000, ma 9999).

L’uso del punto, per separare le migliaia (come nella pratica europea continentale), e ancor più delle virgola (come nella partica anglosassone) può portare a malintesi.

Il segno di separazione per i numeri decimali è, nell’uso europeo continentale, la virgola e il punto nell’uso anglosassone. Quest’ultima modalità la si trova sempre più frequentemente nei testi tradotti (una ragione in più per usare lo spazio unificatore  e non il punto come elemento separatore delle migliaia).

Ricordare che spesso nell’inglese lo 0 che anticipa il decimale è soppresso, non così dovrà essere in italiano (per es., 0,5 [o 0.5] e non .5).

I numeri ordinali generalmente vanno scritti in lettere se minori di dieci, o anche venti (primo, secondo ecc.), diversamente con il numero arabo seguito dal circolino alto (per es., 27° Congresso…).

Ricordare, infine, che questo non va mai usato dopo i numeri romani (per es., III e non III°), un errore grave, purtroppo piuttosto comune.

Nuova sezione: i “falsi amici” in medicina

Grande novità per il blog di terminologia medica, e spero pagina di grande utilità soprattutto ad uso di chi traduce testi di medicina: una nuova e ampia sezione dedicata ai cosiddetti “falsi amici. I “falsi amici” sono quelle parole di una lingua straniera che presentano evidenti somiglianze fonetiche, morfologiche o etimologiche con un altro lemma della propria lingua madre, pur avendo un significato parzialmente o completamente diverso. Nel linguaggio della medicina e in quelli ad esso collaterali e affini sono particolarmente numerosi e possono tramutarsi in vere e proprie insidie, con la conseguenza di uno scritto incomprensibile, talvolta esilarante e comunque imbarazzante per il traduttore stesso.

Nasce così l’idea di un supporto specifico sotto forma di tabella. Nella prima colonna della tabella si trova il termine inglese, nella seconda la sua traduzione corretta in italiano, nella terza il termine frainteso e nella quarta la giusta traduzione in inglese del termine sbagliato.

Ecco quattro esempi in base a quattro diverse tipologie di falsi amici, nessuna delle quali va sottovalutata.

1 – Termini anglosassoni che hanno una precisa somiglianza con termini italiani, ma il cui significato è completamente diverso. Per esempio:

careassistenzacuratreatment, therapy

2 – Termini anglosassoni simili all’italiano, ma che in medicina assumono un significato diverso. Per esempio:

conditionmalattiacondizionecondition (in altri contesti)

3 – Termini anglosassoni diversi dall’italiano, ma di cui il traduttore conosce altri significati e pertanto improvvisa. Per esempio:

theatre capberretto chirurgicocappello da teatronon esiste

4 – Termini anglosassoni, tradotti letteralmente, ma che in italiano non esistono.

nitrogenazotonitrogenonon esiste

Questa sezione, nata da un mio desiderio di servizio a chi traduce di medicina, è stata realizzata in gran parte dalla dottoressa Chiara Montani, traduttrice scrupolosa e appassionata di testi medici, che qui ringrazio per il gran lavoro fatto e la ricerca esaustiva.

Naturalmente, è possibile che traduttrici e traduttori possano non condividere appieno alcune traduzioni e alcuni significati, o – in base alla loro esperienza – conoscere termini qui non riportati. L’invito, come sempre nello spirito del blog, è segnalare gli uni come gli altri: saremo ben felici di accogliere commenti e integrazioni.

Prefissi, suffissi, primi e secondi elementi nella formazione dei termini medici

In un precedente articolo ci siamo già occupati dei prefissi e suffissi nella costruzione dei termini medici.

Ora ci torniamo sopra perché il blog si arricchisce di una nuova pagina (direi monumentale, non fosse che per le dimensioni e il lavoro che ci sta dietro, che oltretutto mi ha allontanato per un po’ dallo scrivere nuovi articoli). La trovate in Home page come “Prefissi e suffissi”. In realtà, è molto di più di prefissi e suffissi. Vediamo perché.

Prefisso significa “particella che, anteposta alla radice di una parola, ne modifica il significato” (per es., de-, in-, pro-), mentre nel suffisso questa particella è posposta (per es., -aio, -are, -eo). Ma occorre distinguere prefissi e suffissi dai prefissoidi e suffissoidi. Il prefissoide è “l’elemento formativo iniziale di una parola composta, derivato da una parola di significato compiuto” (per es., auto-, elettro-, foto-, tele-), ed è sinonimo di primo elemento.Il suffissoide, invece, è “l’elemento formativo terminale di una parola composta, derivato da una parola di significato compiuto” (per es., -grafia, -mania, -teca), ed è sinonimo di secondo elemento.

Ebbene, nella nuova pagina troverete centinaia di prefissi, suffissi, primi e secondi elementi che vanno a formare i termini medici. Per ognuno di essi è indicata l’etimologia, dal greco o dal latino, e – ovviamente – il significato.

È una pagina “strategica”, perché conoscere la composizione dei termini medici, la loro etimologia ci permette di maneggiarli e destreggiarsi meglio con essi, perché conoscere cosa c’è dietro una parola, sapere da dove deriva, come si è formata, significa impadronirsi della parola, usarla con consapevolezza.

Naturalmente, se doveste trovare qualche omissione o qualche imprecisione, segnalatela: un blog è fatto per arricchirsi con il concorso dei lettori.

Terapia, trattamento, cura

Terapia, trattamento, cura: tre termini apparentemente sinonimi, ma in realtà con molte sfumature tra loro.

La terapia, in medicina, è lo studio e l’attuazione concreta dei mezzi e dei metodi per portare alla guarigione delle malattie; obiettivo di una terapia è dunque  riportare uno stato patologico a uno stato sano, o almeno alleviarne i sintomi, renderli più sopportabili.

Trattamento è un termine con un significato più esteso, intendendosi con esso l’applicazione di determinati metodi e processi, o azione di qualsiasi genere e natura (fisica, chimica, materiale, ecc.) a cui si sottopone un organismo o parte di questo, per conseguire determinati effetti. Ha più a che fare con una gestione complessiva. “Trattamento dei tumori”, giusto per fare un esempio, sta a indicare non tanto e non solo la terapia, ma l’approccio globale al problema.

E la cura? Cura, in medicina, è l’insieme delle terapie e dei medicamenti usati per il trattamento di una malattia.

Tuttavia, queste definizioni mi lasciavano comunque un poco insoddisfatto, con questi continui rimandi da un termine all’altro, ed è così che ho pensato di consultare il Dizionario analogico della lingua italiana (nella fattispecie quello di Feroldi, Dal Pra, pubblicato da Zanichelli). Consultare un dizionario analogico vi assicuro che, per chi ama la lingua e le parole, è un’avventura meravigliosa.

Ebbene, a proposito di terapia trovo un elenco vastissimo: terapia sintomatica, farmacologica, ormonale, oncologica, radiante, d’urto, intensiva, riabilitativa… Naturalmente anche in termini composti: farmacoterapia, ormonoterapia, oncoterapia, chemioterapia, radioterapia, ossigenoterapia, ozonoterapia, aerosolterapia, elioterapia, fototerapia, vaccinoterapia, e – credetemi – moltissime altre (provare per credere). Poi, naturalmente, c’è la terapia del dolore, e le terapie palliative. Poi la fisioterapia e le terapie fisiche, con  la chinesiterapia, la chiroterapia, la massoterapia… Quindi la terapia del sonno, ma anche la terapia convulsivante e quella elettroconvulsivante. E, in ambito psicologico, tutte le psicoterapie, con la terapia di gruppo, la terapia di coppia ecc. Vi assicuro, quello che vi ho riportato è un elenco ridottissimo rispetto a quello disponibile. C’è da perdersi…  

Ma, sempre a proposito di meravigliose avventure nei dizionari, alla voce “cura”, sullo Zingarelli, c’è una perla. È tra le “definizioni d’autore”, ed è affidata, per questa voce, alla dottoressa Emanuela Palmerini. Ecco che cos’è la cura, come meglio non la si può definire:

Cura è una parola molto bella.
Cura è farsi carico dei bisogni di un altro: è un processo dinamico tra persona e persona, medico e paziente.
Cura è ascolto e tempo: una terapia ha meno valore se non abbiamo tempo per un colloquio con il paziente.
Cura è professionalità: lavorare con scienza, coscienza e dedizione.
Cura è gentilezza: un gesto semplice, come un saluto al mattino.
Cura è amore per sé: un po’ di bellezza nella nostra giornata.
Cura è scelta: scegliere di porre un altro al centro delle nostre azioni.
Cura è la rivoluzione delle nostre priorità.
Cura è possibile.

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Nell’immagine: Wolfgang Heimbach – Il malato, metà del XVII secolo. Amburgo, Hamburger Kunsthalle.
Nel volume Viaggio intorno al  corpo, della collana Dizionari d’Arte, pubblicata da Electa, a cura di Giorgio Bordin, Marco Bussagli e Laura Polo D’Ambrosio, a proposito di questo quadro si legge: “Il piccolo quadro, che si presenta come una tranquilla realtà domestica, ha certamente significati allegorici e simbolici […]. Cogliendo gli aspetti quotidiani della vita borghese si vuole fare meditare sulla condizione della malattia e sull’importanza del prendersi cura dell’altro quale gesto non scontato di carità familiare”. Il malato risulta infatti “accudito dalle amorevoli cure della moglie e riceve l’affettuoso saluto della piccola figlia, mentre la domestica cambia le lenzuola del letto”.

I tecnicismi collaterali nel linguaggio medico

Un insulto traumatico, il pazienta lamenta un dolore in area addominale, l’arto offeso, una spiccata dolorabilità, una coorte di sintomi… Sono solo alcuni degli infiniti esempi di quelli che si definiscono “tecnicismi collaterali”.

Vediamo di capire esattamente di cosa si tratta, facendo un piccolo passo indietro e definendo anzitutto i tecnicismi specifici. Questi sono né più né meno i termini medici che troviamo in anatomia (ulna, massetere), fisiologia (metabolismo, midriasi), patologia (glaucoma, setticemia)… Denotano in modo inequivocabile realtà specifiche e, se molti possono apparire, appunto, “tecnici”, è il caso di ricordare che moltissimi appartengono anche al lessico comune (fegato, occhio, milza…).

Scrive il professor Luca Serianni nel suo libro (pubblicato da Garzanti, ormai introvabile) Un treno di sintomi, dedicato al linguaggio della medicina, che si sofferma a lungo sul tema dei tecnicismi: “per indicare il piccolo osso che forma la parte terminale della colonna vertebrale dobbiamo adoperare obbligatoriamente il tecnicismo coccige”, che ci piaccia o no. Ecco, questi sono i tecnicismi specifici. Va da sé che sono decine e decine di migliaia, sono le parole, i termini della medicina.

Altra cosa sono i tecnicismi collaterali. Lasciamo sempre al professor Serianni definirli (inutile traslare: come lo dice lui, non lo dice nessuno) “una lingua speciale è fatta anche di vocaboli caratteristici di un certo ambito settoriale, che però sono legati non a effettive necessità comunicative, bensì all’opportunità di adoperare un registro elevato, distinto dal linguaggio comune”. Ecco, questi sono i tecnicismi collaterali (TC). Aggiungerò io che se i primi sono “stabili”, i secondi, legati alle esigenze del registro stilistico, presentano ampi margini di oscillazione.

In questi tecnicismi lo scostarsi dal linguaggio comune è netto: il paziente “sente un forte dolore alla bocca dello stomaco”, mentre il medico per dire la stessa cosa in una cartella clinica scriverà “il paziente accusa (o lamenta, riferisce) un vivo dolore nella regione epigastrica”. Un altro esempio? “La malattia esordisce improvvisamente con elevato rialzo termico e cefalea”, scrive il medico. Poteva dire “inizia con febbre alta e mal di testa”, e invece no, perché così si esprime il paziente. Un altro divertente: “l’alvo è regolare”, laddove il paziente direbbe “vado in bagno regolarmente”.

Con questi tecnicismi specifici il blog si arricchisce di una nuova, apposita, pagina, da oggi disponibile sul sito. Ne ho trovati oltre cento: per ciascuno ho fornito la definizione, il contesto d’uso, e degli esempi.

Grazie, una volta di più, al professor Serianni senza il cui libro questa pagina sarebbe certo risultata più povera.

Un esempio di buona comunicazione scientifica

Se riuscite a spiegare e a far capire una cosa, anche complessa, a un bambino, allora siete buoni comunicatori.

Quando si vuole portare le proprie conoscenze ad altri, occorre molta umiltà, procedere per gradini, in progressione, dare per scontato il minor numero di cose possibile, usare frasi lineari, brevi. La brevità, la capacità di sintesi, è talento.

Tutti questi principi di “buona ed efficace comunicazione”, che ho sempre ritenuto essere fondamentali, perseguendoli in ogni occasione, li ho ritrovati in una recente pubblicazione destinata ai bambini che spiega cosa sono i vaccini e il sistema immunitario.

Si tratta di una sorta di quaderno (che potete visualizzare e scaricare qui), “Guida galattica al vaccino per bambini e bambine curiosi”, ed è uno strumento educativo di esemplare chiarezza, in due lingue (italiano e inglese). Naturalmente, è accompagnato da una grafica molto accattivante. È destinato, oltre che ai bambini, alle loro famiglie e ai loro genitori, nell’auspicio che siano questi a leggerglielo. A scrivere i testi sono state Erika Nerini e Daniela Longo, bravissime medical writer, titolari di PopMED. Il quaderno si avvale del supporto scientifico di Marcello Pinti, professore associato di Patologia e Immunologia dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia e del team di Pleiadi, un team di scienziati convinti che la curiosità sia la chiave per scoprire e comprendere il mondo.

Il quaderno ha un precedente: “Guida galattica al coronavirus”, che ha avuto un tale successo da essere tradotto in 30 lingue e divulgato in più di 60 Paesi al mondo. Anche questo spiega ai bambini che cos’è il “microbo venuto da lontano” che ha cambiato le nostre abitudini e il nostro modo di relazionarci, ma che può essere frenato grazie a piccoli gesti quotidiani.

Questo mio breve articolo non è pubblicità a delle bravissime colleghe (il quaderno, una volta di più, è scaricabile gratuitamente e il blog ha i 25 lettori di manzoniana memoria [ma cresceranno!]), ma è solo un invito a scaricarlo e a leggerlo ai vostri figli, nipoti: ne trarranno vantaggio loro, e anche voi perché è partendo dallo spiegare ai bambini che si impara a fare comunicazione.