Fai attenzione quando leggi un libro di medicina: potresti morire per un errore di stampa

Mark Twain, lo scrittore statunitense (1835-1910) autore dei famosissimi libri Le avventure di Tom Sawyer e Le avventure di Huckleberry Finn, scriveva: “Fai attenzione quando leggi un libro di medicina: potresti morire per un errore di stampa”. L’aforisma è certo paradossale, ma c’è del vero: errori nella compilazione di una ricetta o cattive interpretazioni della stessa, ma anche trascuratezza nel riportare prescrizioni in cartella clinica possono rivelarsi fatali. Analogamente, quando si scrive o si traduce in medicina occorre prestare la massima attenzione: un refuso (si pensi per esempio relativamente a un dosaggio) può essere molto pericoloso.

Non per niente il Ministero della Salute ha emanato qualche tempo fa una “Raccomandazione per la prevenzione degli errori  in terapia” che tra le altre cose indica di:

  • Scrivere il nome del principio attivo dei farmaci per esteso (per es., non 5-FU o CHOP, ma – rispettivamente – 5-Fluoro Uracile e ciclofosfamide / doxorubicina / vincristina / prednisone).
  • Lasciare uno spazio tra nome e il dosaggio, in modo particolare per quei nomi che finiscono in l (elle) per evitare interpretazioni errate (per es., Inderal 40 mg al posto di Inderal40mg che potrebbe essere confuso con Inderal 140 mg).
  • Non mettere lo zero terminale dopo la virgola per le dosi espresse da numeri interi (per es., scrivere 1 mg invece che 1,0 mg in quanto potrebbe essere confuso con 10 mg).
  • Scrivere sempre lo zero prima dei decimali inferiori a un’unità (per es., scrivere 0,5 g invece di ,5 g o .5 g [all’inglese] che può essere erroneamente interpretato come 5 g se non viene letta la virgola [o i punto]).
  • Usare il punto per separare i tre zeri delle migliaia o usare parole come 1 milione per favorire la corretta interpretazione (per es., 10000 unità va scritto 10.000 unità).
  • Specificare chiaramente la posologia evitando indicazioni generiche come “un cucchiaino”, “un misurino”.
  • Evitare schemi posologici ambigui, ma precisare, senza abbreviazioni e sigle, l’esatta periodicità dell’assunzione (per es., “due volte al giorno” ha significato diverso per l’assunzione di un antibiotico da somministrare a intervalli determinati come “ogni 12 ore” rispetto a un antiacido da assumere a pranzo e a cena) ed evitare sempre la dicitura “al bisogno”.
  • Evitare l’uso delle frazioni (per es., ½ compressa ovvero “metà compressa” può essere frainteso con 1 o 2 compresse).
  • Scrivere le unità di misura secondo il sistema metrico decimale. Per le misure di capacità viene accettato il litro l (L) e sottomultipli: scrivere, per esempio, ml o mL e mai cc. Per quanto riguarda le unità di misura del peso, µg (sebbene presente nel sistema metrico decimale) potrebbe essere confondente, come anche mcg, e quindi bisogna scrivere per esteso microgrammi.
  • Per i farmaci in combinazione indicare il dosaggio di ognuno dei principi attivi.

Insomma, una serie di indicazioni estremamente utili cui i medici dovrebbero attenersi e come già detto non solo i medici ma chiunque scriva o traduca di medicina.

Recentemente, sempre il Ministero della Salute, al fine di ridurre o prevenire errori di terapia, ha redatto in accordo con l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) la lista dei farmaci LASA. Di cosa si tratta? LASA è un acronimo che sta per look alike sound alike con il quale vengono indicati tutti quei farmaci  simili nella confezione (dimensione e/o colore) e/o nella fonetica che potrebbero essere più facilmente confusi o scambiati con altri, generando di conseguenza errori terapeutici. Si pensi per esempio a Alkeran® (il cui principio attivo è il melfaran) per Leukeran® (clorambucile), molto simili nel nome o altri quasi identici nella loro confezione, come nell’immagine. Qui l’elenco completo dei farmaci LASA.

Attenzione, dunque: scrivere e tradurre in medicina comporta responsabilità, un refuso non ha lo stesso valore che in un testo di narrativa…

ASL, ATS, ASST… come districarsi nel labirinto della Sanità?

L’argomento in questione non è propriamente di terminologia medica, ma questo blog è nato essenzialmente come “blog di servizio”: aiutare chi scrive e chi traduce di medicina a trovare risposte se non certe almeno attendibili e ragionevoli per scrivere e tradurre correttamente, per scegliere un termine piuttosto che un altro, per usare un’espressione invece di un’altra. E poi per sapere, conoscere.

E quindi, giusto per aiutare a districarsi in ambiti spesso non facili, ho pensato di portare un contributo al ginepraio delle sigle che contraddistinguono le aziende sanitarie e simili, oggi – ahimè – tanto in uso e di comune riscontro sui giornali e nelle TV.

Siamo abituati alle ASL, Aziende Sanitarie Locali, ma ora ci imbattiamo nelle ATS, nelle ASST e in altre sigle ancora: cosa significano?

Le ATS sono le Agenzie di Tutela della Salute, con compiti di controllo e di programmazione (si noti il passaggio da “aziende” ad “agenzie”). Queste non si occuperanno più di servizi territoriali, che saranno lasciati alle ASST (Aziende Socio Sanitarie Territoriali), che sostituiscono le vecchie Aziende Ospedaliere (AO).  Sarà dunque compito di queste erogare i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA); esse si articolano in due settori aziendali: rete territoriale e polo ospedaliero. Alla rete territoriale afferiscono i Presidi Ospedalieri Territoriali (POT) e i Presidi Socio Sanitari Territoriali (PreSST).

Attenzione, però: ogni Regione si articola secondo criteri propri, per cui si troverà ancora sia ASL che AO: quello di cui sopra è tratto dalla nuova articolazione della Regione Lombardia (nell’immagine le 8 Agenzie di Tutela dalla Salute lombarda), ma in un modo o nell’altro con queste sigle bisogna confrontarsi e visto che c’è da perderci la testa, ecco perché questa breve guida.

Ah, dimenticavo… poi ci sarebbero anche le USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale – per seguire i malati di Covid a domicilio), anzi dovrebbero esserci (vedete come sono importanti le parole?), ma – salvo rarissime eccezioni – ci sono solo sulla carta… e in questo blog.

Ancora sulle sigle e gli acronimi in medicina

Ho ricevuto diverse richieste di approfondimenti sul tema “sigle e acronimi in medicina” e quindi aggiungo alcune precisazioni all’ultimo articolo  pubblicato.

Alcuni mi chiedono chiarimenti circa l’uso delle sigle derivanti dall’inglese piuttosto che dall’italiano. È ovvio che prevalgono le prime, tuttavia alcune italiane hanno pieno diritto di essere. Pensiamo a SNC per sistema nervoso centrale, certamente preferibile a CNS (central nervous system), o LES per  lupus eritematoso sistemico in luogo di SLE (systemic lupus erythematosus), o semplicemente a TC e RM per tomografia computerizzata e risonanza magnetica, rispettivamente, invece delle inglesi CT e MR. Altre sigle se la giocano alla pari, come PA per pressione arteriosa e l’equivalente BP (dall’inglese blood pressure).

Semmai si pone il problema che una commistione delle due forme, dall’inglese  e dall’italiano, in uno stesso testo, non è ideale.…

Un’altra questione sollevata, molto “fine” direi, e quindi complimenti a chi l’ha posta, è l’uso dell’articolo davanti alle sigle. In linea di massima, l’articolo si concorda con il numero e il genere della denominazione completa, con qualche eccezione come per esempio l’AIDS, che pur essendo una sindrome (e quindi femminile) viene trattata al maschile (l’AIDS sta per lo AIDS).

Della questione si è occupata anche la prestigiosa Accademia della Crusca che afferma che per le sigle in cui la prima lettera è una vocale si usano gli articoli prevocalici (l’, gli, un) nel numero e genere richiesto da quella particolare sigla, mentre per le sigle che cominciano per consonante si distingue tra quelle che sono pronunciate o possono essere pronunciate come una sola parola e quelle che sono pronunciate per lettere distinte. Per chi volesse approfondire, qui.

Chiudo ricordando alcuni siti internet che si configurano come un dizionario delle sigle in medicina (ahimè, quasi sempre incompleto e provvisorio visto il continuo proliferare delle sigle), ma comunque utile per reperire il significato delle sigle:

www.abbreviations.com/category/MEDICAL
https://www.acronymfinder.com/
https://www.medindia.net/medical-abbreviations-and-acronyms/index.asp

Ai lettori: se ne conoscete altri e, più in generale, se volete portare contributi all’argomento sulla base della vostra esperienza, usate la funzione “Commenta” in fondo a ogni articolo.

Acronimi e sigle in medicina

In medicina si fa un uso molto abbondante (anzi, direi eccessivo) di sigle e acronimi. “Sigla” e “acronimo” sono sostanzialmente sinonimi, tuttavia la sigla è formata dalle sole lettere iniziali delle parole che la compongono, mentre l’acronimo può essere anche formato con più lettere (sillabe) delle parole che lo compongono. Ne deriva che nelle sigle le lettere vengono pronunciate separatamente, mentre gli acronimi possono essere pronunciati come se fossero un’unica parola. Entrambi sono abbreviazioni, anche se queste ultime vengono per lo più intese come forme contratte di una sola parola (come “pag.” per pagina, o “es.” per esempio).

Degli acronimi si fa un uso frequente per identificare i trial clinici: per esempio, BEST (Beta-blocker Evaluation Survival Trial), LIFE (Losartan Intervention For Endpoint reduction in hypertension study).

Le sigle vanno usate al posto del termine per esteso solo quando questo ricorre nel testo con una certa frequenza e non, per esempio, se compare solo tre o quattro volte in tutto. Un loro uso eccessivo, come in certi abstract, appesantisce il testo, tanto nella lettura quanto nell’aspetto grafico.

Le sigle vanno sempre esplicitate la prima volta che compaiono nel testo, e tale esplicitazione va ripetuta, preferibilmente, in ogni nuovo capitolo o sezione del testo stesso, a meno che si sia preferita una legenda o un’appendice riepilogativa di tutte le sigle usate con il loro significato. Può essere fatta eccezione per quelle ormai universalmente riconosciute (DNA, AIDS…), così come per quelle usate in una pubblicazione specialistica (può suonare ridicolo, per esempio, ricordare in una pubblicazione per cardiologi che ECG sta per elettrocardiogramma!).

Una stessa sigla può avere più significati, ragione in più per esplicitarla sempre: AV, per esempio, può stare sia per “atrioventricolare” sia per “arterovenoso”; CRF per “insufficienza respiratoria cronica (chronic respiratory failure)”, ma anche per “insufficienza renale cronica (chronic renal failure)”, oppure “fattore che favorisce la liberazione della corticotropina (corticotropin-releasing factor)”, o ancora “scheda raccolta dati (case report form)”.

La forma più corretta per esplicitare una sigla è quella riportata nei seguenti esempi:

  • barriera ematoencefalica (BEE)
  • broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO)
  • malattia di Alzheimer (Alzheimer disease, AD)
  • virus dell’epatite C (hepatitis C virus, HCV).

Si noti che nei primi due esempi le sigle derivano da termini italiani e quindi è sufficiente far seguire solo, tra parentesi, la sigla corrispondente, mentre quando la sigla deriva da un termine inglese si riporterà sempre tra parentesi, in corsivo, il termine stesso per esteso, seguito dalla sua sigla (in tondo).

Alcuni preferiscono, nell’esplicitazione inglese, l’uso delle iniziali maiuscole (nell’esempio di cui sopra, Hepatitis C Virus), così da richiamare con maggior immediatezza la sigla. Tuttavia, tale forma appesantisce il testo ed è sconsigliabile (tranne, naturalmente, quando nella sigla ricorrono nomi propri). Proprio per non appesantire il testo, nel linguaggio giornalistico le sigle vengono scritte in M/m (per es., Aids, Dna), ma non così in un testo di medicina dove vanno sempre scritte tutte in maiuscolo (o nel più elegante maiuscoletto).

Le sigle non vanno mai puntate e preferibilmente non vanno usate nei titoli.

PS: nell’immagine, un ritaglio della copertina del “mitico” Dizionario delle sigle mediche, di Mario Lucchesi, Raffaello Cortina Editore, fermo – ahimè – al 1994, anche perché oggi avrebbe lo spessore di un dizionario e verrebbe continuamente scavalcato dal quotidiano in quanto ogni giorno vengono coniate nuove sigle.  

Covid-19: “la” malattia e “il” virus

Data l’attualità, questo blog non può che partire cercando di fare un po’ di chiarezza sui termini di questa pandemia.

COVID-19 (o Covid-19, con la sola iniziale maiuscola) è quello più usato, ma molti confondono il virus con la malattia. Questo termine, infatti, è l’acronimo di COronaVIrus Disease-19, e con esso si intende pertanto la malattia da coronavirus del 2019, denominazione stabilita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) l’11 febbraio 2020.1

COVID-19 non è quindi il nome del virus responsabile della malattia, che è SARS-CoV-2 (severe acute respiratory syndrome-coronavirus-2), come stabilito sempre l’11 febbraio 2020 dall’International Committee on Virus Taxonomy (ICTV), sulla base di un’analisi filogenetica di coronavirus correlati.2

Il SARS-CoV(1), è il caso di ricordarlo, è il virus della  sindrome respiratoria acuta grave (la SARS, appunto), che apparve per la prima volta nel novembre 2002 nella provincia del Guangdong (Canton) in Cina.

C’è da dire che non tutti gli scienziati sono d’accordo sul denominare così il virus della pandemia corrente: la stessa OMS, inizialmente, aveva proposto di denominarlo 2019-nCoV (novel-coronavirus 2019), mentre in un articolo pubblicato il 21 marzo 2020 su Lancet3 gli autori del lavoro propongono di denominarlo HCoV-19 (Human CoronaVirus 2019), in modo da mantenere la coerenza con la malattia stabilita dall’OMS.

Per quanto concerne invece questioni più strettamente linguistiche, l’articolo da anteporre a COVID-19, acronimo che come abbiamo visto indica la malattia e non il virus, dovrebbe essere al femminile (“la COVID”), e così per il momento prevale nelle pubblicazioni di carattere scientifico. Tuttavia, l’uso al maschile domina nella stragrande maggioranza dei casi e nell’uso comune per cui, visto che spesso è l’uso a influenzare la lingua, l’impiego di COVID al maschile non può considerarsi grammaticalmente scorretto. In un dottissimo articolo a cui si rimanda per molti e brillanti approfondimenti, l’Accademia della Crusca afferma che “il radicamento nella lingua corrente del maschile è infatti ormai tale che anche un’eventuale raccomandazione a favore del femminile da parte dei linguisti sortirebbe probabilmente scarso effetto”.4


Fonte

Portale italiano delle classificazioni sanitarie.