Questo articolo è stato scritto dal dottor Carlo Barbera, che ringrazio per la collaborazione. Anche a lui, benvenuto nel blog!
Ho sempre amato l’inglese perché la trovo una lingua affidabile, mi dà la sensazione che esista una parola per ogni cosa. E questo è fondamentale in ambito medico e scientifico, dove le parole pesano come macigni e c’è bisogno di termini che non lascino spazio ad ambiguità, per capire e per spiegarsi.
Per quanto io preferisca usare vocaboli italiani, ci sono però casi in cui la traduzione può portare con sé il rischio di fraintendimenti, quando si parla fra addetti ai lavori così come quando si vuole comunicare a un pubblico più vasto e generico. È il caso di efficacy ed effectiveness, due parole che vengono entrambe tradotte con il termine “efficacia”, ma il cui significato è sostanzialmente diverso e viene diluito e confuso nel passaggio tra lingue. Se per il primo termine non c’è nulla di male a tradurlo letteralmente, la seconda è, come avrebbe detto Claudio Bisio nella sua imitazione dell’indimenticabile Paolo Limiti, “una parola un po’ intraducibile”. O meglio, esiste in italiano il vocabolo “effettività”, ma questo è talmente poco usato in ambito medico che rischia di dare origine a ulteriori incomprensioni. Pertanto, ai fini di questo articolo, farò riferimento ai termini anglosassoni.
In farmacologia e medicina, la efficacy viene definita come la massima risposta raggiungibile con l’assunzione di un farmaco. Tuttavia, questa efficacy viene sempre misurata in contesti artificiali come quelli degli studi clinici, nei quali le condizioni sono ideali, i pazienti vengono selezionati sulla base di criteri rigorosi, e i regimi terapeutici hanno la massima aderenza. La effectiveness differisce in questo perché prende in considerazione come un farmaco si comporta nel mondo reale, dove viene somministrato a gruppi di pazienti con caratteristiche eterogenee rispetto a quelle delle popolazioni selezionate per gli studi clinici, come pazienti che assumono in concomitanza altri farmaci per i quali non esistono dati relativi alle interazioni.
Provo a fare un esempio concreto per chiarire meglio questa differenza. In questi giorni si è parlato molto del vaccino di Pfizer/BioNTech e proprio la efficacy è stata oggetto di interesse mediatico, con risultati che hanno superato tutte le aspettative e hanno generato grandi speranze intorno a questa possibilità terapeutica. Ma cosa intendevano i comunicati dicendo che il vaccino Pfizer ha una efficacia del 95%, e come questa è stata calcolata? Analizziamo insieme gli aspetti della questione.
Lo studio clinico di Fase III concluso da poco ha visto il reclutamento di 43.661 volontari sani a livello globale. Al fine di misurare l’efficacy, un gruppo di pazienti al quale i medici hanno somministrato il vaccino sperimentale è stato comparato con un gruppo di pazienti “di controllo”, cui è stato somministrato un placebo. Si è poi aspettato che le persone contraessero in maniera naturale l’infezione, e quando 170 partecipanti sono tornati con i sintomi da Covid-19 e sono risultati positivi al tampone, si è visto che 8 di loro erano stati vaccinati, mentre i restanti 162 appartenevano al braccio di controllo. È stata quindi calcolata la differenza relativa tra la frazione di volontari vaccinati che si sono ammalati e la frazione di volontari non vaccinati che si sono ammalati, detta appunto Vaccine Efficacy (VE).
Questo significa che il vaccino proteggerà il 95% di coloro che lo faranno? Non esattamente, proprio per il fatto che la efficacy è un valore teorico. Sarà la effectiveness a determinare in che misura questo vaccino è realmente, scusate il gioco di parole, efficace nel proteggere la popolazione. E questo dipenderà anche da parametri importanti quali, per esempio, la durata dell’immunità verso un ceppo virale che evolve, il rapporto rischi/benefici, ma anche la difficoltà nella conservazione, il costo, l’accessibilità, la stabilità e i problemi di produzione.
Insomma, per citare un vecchio adagio, i vaccini non salvano vite, sono i programmi vaccinali a salvare vite.
Carlo Barbera
Mi occupo di progettazione e sviluppo di farmaci e dispositivi medici per professione, e di rendere la ricerca farmaceutica un argomento social e divertente per passione. Ogni settimana potete leggere i miei post su LinkedIn seguendo l’hashtag #ScientiFico, dove spiego cosa penso dello sviluppo di nuovi prodotti farmaceutici.