Un esempio di buona comunicazione scientifica

Se riuscite a spiegare e a far capire una cosa, anche complessa, a un bambino, allora siete buoni comunicatori.

Quando si vuole portare le proprie conoscenze ad altri, occorre molta umiltà, procedere per gradini, in progressione, dare per scontato il minor numero di cose possibile, usare frasi lineari, brevi. La brevità, la capacità di sintesi, è talento.

Tutti questi principi di “buona ed efficace comunicazione”, che ho sempre ritenuto essere fondamentali, perseguendoli in ogni occasione, li ho ritrovati in una recente pubblicazione destinata ai bambini che spiega cosa sono i vaccini e il sistema immunitario.

Si tratta di una sorta di quaderno (che potete visualizzare e scaricare qui), “Guida galattica al vaccino per bambini e bambine curiosi”, ed è uno strumento educativo di esemplare chiarezza, in due lingue (italiano e inglese). Naturalmente, è accompagnato da una grafica molto accattivante. È destinato, oltre che ai bambini, alle loro famiglie e ai loro genitori, nell’auspicio che siano questi a leggerglielo. A scrivere i testi sono state Erika Nerini e Daniela Longo, bravissime medical writer, titolari di PopMED. Il quaderno si avvale del supporto scientifico di Marcello Pinti, professore associato di Patologia e Immunologia dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia e del team di Pleiadi, un team di scienziati convinti che la curiosità sia la chiave per scoprire e comprendere il mondo.

Il quaderno ha un precedente: “Guida galattica al coronavirus”, che ha avuto un tale successo da essere tradotto in 30 lingue e divulgato in più di 60 Paesi al mondo. Anche questo spiega ai bambini che cos’è il “microbo venuto da lontano” che ha cambiato le nostre abitudini e il nostro modo di relazionarci, ma che può essere frenato grazie a piccoli gesti quotidiani.

Questo mio breve articolo non è pubblicità a delle bravissime colleghe (il quaderno, una volta di più, è scaricabile gratuitamente e il blog ha i 25 lettori di manzoniana memoria [ma cresceranno!]), ma è solo un invito a scaricarlo e a leggerlo ai vostri figli, nipoti: ne trarranno vantaggio loro, e anche voi perché è partendo dallo spiegare ai bambini che si impara a fare comunicazione.  

ASL, ATS, ASST… come districarsi nel labirinto della Sanità?

L’argomento in questione non è propriamente di terminologia medica, ma questo blog è nato essenzialmente come “blog di servizio”: aiutare chi scrive e chi traduce di medicina a trovare risposte se non certe almeno attendibili e ragionevoli per scrivere e tradurre correttamente, per scegliere un termine piuttosto che un altro, per usare un’espressione invece di un’altra. E poi per sapere, conoscere.

E quindi, giusto per aiutare a districarsi in ambiti spesso non facili, ho pensato di portare un contributo al ginepraio delle sigle che contraddistinguono le aziende sanitarie e simili, oggi – ahimè – tanto in uso e di comune riscontro sui giornali e nelle TV.

Siamo abituati alle ASL, Aziende Sanitarie Locali, ma ora ci imbattiamo nelle ATS, nelle ASST e in altre sigle ancora: cosa significano?

Le ATS sono le Agenzie di Tutela della Salute, con compiti di controllo e di programmazione (si noti il passaggio da “aziende” ad “agenzie”). Queste non si occuperanno più di servizi territoriali, che saranno lasciati alle ASST (Aziende Socio Sanitarie Territoriali), che sostituiscono le vecchie Aziende Ospedaliere (AO).  Sarà dunque compito di queste erogare i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA); esse si articolano in due settori aziendali: rete territoriale e polo ospedaliero. Alla rete territoriale afferiscono i Presidi Ospedalieri Territoriali (POT) e i Presidi Socio Sanitari Territoriali (PreSST).

Attenzione, però: ogni Regione si articola secondo criteri propri, per cui si troverà ancora sia ASL che AO: quello di cui sopra è tratto dalla nuova articolazione della Regione Lombardia (nell’immagine le 8 Agenzie di Tutela dalla Salute lombarda), ma in un modo o nell’altro con queste sigle bisogna confrontarsi e visto che c’è da perderci la testa, ecco perché questa breve guida.

Ah, dimenticavo… poi ci sarebbero anche le USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale – per seguire i malati di Covid a domicilio), anzi dovrebbero esserci (vedete come sono importanti le parole?), ma – salvo rarissime eccezioni – ci sono solo sulla carta… e in questo blog.

Covid-19: “la” malattia e “il” virus

Data l’attualità, questo blog non può che partire cercando di fare un po’ di chiarezza sui termini di questa pandemia.

COVID-19 (o Covid-19, con la sola iniziale maiuscola) è quello più usato, ma molti confondono il virus con la malattia. Questo termine, infatti, è l’acronimo di COronaVIrus Disease-19, e con esso si intende pertanto la malattia da coronavirus del 2019, denominazione stabilita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) l’11 febbraio 2020.1

COVID-19 non è quindi il nome del virus responsabile della malattia, che è SARS-CoV-2 (severe acute respiratory syndrome-coronavirus-2), come stabilito sempre l’11 febbraio 2020 dall’International Committee on Virus Taxonomy (ICTV), sulla base di un’analisi filogenetica di coronavirus correlati.2

Il SARS-CoV(1), è il caso di ricordarlo, è il virus della  sindrome respiratoria acuta grave (la SARS, appunto), che apparve per la prima volta nel novembre 2002 nella provincia del Guangdong (Canton) in Cina.

C’è da dire che non tutti gli scienziati sono d’accordo sul denominare così il virus della pandemia corrente: la stessa OMS, inizialmente, aveva proposto di denominarlo 2019-nCoV (novel-coronavirus 2019), mentre in un articolo pubblicato il 21 marzo 2020 su Lancet3 gli autori del lavoro propongono di denominarlo HCoV-19 (Human CoronaVirus 2019), in modo da mantenere la coerenza con la malattia stabilita dall’OMS.

Per quanto concerne invece questioni più strettamente linguistiche, l’articolo da anteporre a COVID-19, acronimo che come abbiamo visto indica la malattia e non il virus, dovrebbe essere al femminile (“la COVID”), e così per il momento prevale nelle pubblicazioni di carattere scientifico. Tuttavia, l’uso al maschile domina nella stragrande maggioranza dei casi e nell’uso comune per cui, visto che spesso è l’uso a influenzare la lingua, l’impiego di COVID al maschile non può considerarsi grammaticalmente scorretto. In un dottissimo articolo a cui si rimanda per molti e brillanti approfondimenti, l’Accademia della Crusca afferma che “il radicamento nella lingua corrente del maschile è infatti ormai tale che anche un’eventuale raccomandazione a favore del femminile da parte dei linguisti sortirebbe probabilmente scarso effetto”.4


Fonte

Portale italiano delle classificazioni sanitarie.