Il termine è poco usato, appartiene più che altro all’area emotiva e interessa più la psicologia/ psichiatria/psicoanalisi (Freud vi dedicò un trattato nel 1916) che la medicina in senso stretto, ma l’etimo è così bello che va raccontato, anche perché riporta alla storia della medicina.
Dai tempi di Ippocrate si riteneva che a governare l’organismo umano ci fossero quattro umori fondamentali: la bile nera (che corrispondeva all’elemento Terra), la bile gialla (il Fuoco), il flegma (l’Acqua) e il sangue (Aria). Terra, Fuoco, Acqua e Aria erano i quattro elementi fondamentali che, secondo il mondo greco, costituivano la realtà sensibile, e ciascuno di questi si combinava con due degli attributi fondamentali della materia: caldo, freddo, secco e umido. Così, il Fuoco era caldo e secco, l’Aria calda e umida ecc.
Ippocrate aveva anche definito le rispettive sedi organiche: la bile nera nella milza, quella gialla nel fegato, il flegma nella testa e il sangue, va da sé, nel cuore.
Questa teoria, per quanto assai strampalata, dominò la medicina sino al Rinascimento.
Fatta questa necessaria premessa, torniamo alla parola che deriva dal greco melancholía, che è termine composto di mélas (“nero”) e cholḗ (“bile”) quindi, secondo l’antica medicina, “umor nero di natura fredda e secca, secreto dalla bile”. Ecco perché abbiamo dovuto fare la premessa di cui sopra.
A partire da qui il termine “melanconia” è stato usato con il significato generico di disturbo psichico, e quindi di “male”. Ed ecco che dal mel- si è passati al mal-…
E arriviamo ai giorni nostri dove si tende a definirla “ipocondria” e a inserirla nel quadro delle distmie.
Qualche purista o nostalgico, va detto, continua a chiamarla “melanconia” o anche “melancolia”.
In un recentissimo e assai godibile libro (Alla fonte delle parole) la scrittrice e classicista Andrea Marcolongo scrive: “Per attrazione del lemma ‘male’ il buio dentro diventa colpa. Basta una a al posto della e ed ecco che melanconia diventa la nostra malinconia”. E conclude la pagina ad essa dedicata con questa bellissima definizione: “Rivendichiamo l’etimo di melanconia – per un’anima che riposatamente accetta il buio. Fieri del nostro segno più, non meno quando piangiamo e non sappiamo perché. Magari finiremo per scorgere e accettare l’aiuto di una luce”.
Auguri a tutti noi, in questi tempi cupi, di vedere presto una luce.
Nell’immagine, il celebre quadro dal titolo “Malinconia” (1840-41),
di Francesco Hayez (Pinacoteca di Brera, Milano)
Grazie, Tiziano. Sempre stimolanti, i tuoi post. Se posso, per chi avesse voglia di spulciare qualcosa di interessante sul tema, dico: R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl – Saturno e la melanconia. Torino, Einaudi 1983 se non erro (il titolo originale è però: Saturn and melancholy, Study in the History of Natural Philosophy Religion and Art): relazione fra arte e scienza ecc. ecc., come si Ono formate e sviluppate ecc. ecc. Grazie ancora e un saluto
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Grazie della segnalazione che condivido con molto piacere. Non a caso (mi riferisco alla relazione tra arte e scienza cui tu fai riferimento), ho messo il quadro di Hayez come immagine. A proposito di quel quadro lui scriveva: «La Malinconia era rappresentata da una giovane donna del Medioevo, che presa da un sentimento d’amore, sta in una posa abbandonata, che nonostante la passione per i fiori, da essa raccolti in un vaso, tenendone uno in mano che forse le ricorda la persona a lei cara, tiene alquanto china la testa, per meglio nutrire il pensiero che la domina, non curante tutto quello che le sta intorno, e gli abiti stessi che le cadono da una spalla, lasciando vedere parte del petto. L’abito è di raso celeste carico ch’io credetti adatto al soggetto, anche perché contrapposto alle tinte vive dei diversi fiori, ch’io presi tutti dal vero con cura coscienziosa».
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