Se il vostro medico vi dicesse che assumendo una determinata medicina potreste ridurre del 26% il vostro rischio d’infarto, questa percentuale potrebbe sembrarvi decisamente elevata e farvi considerare positivamente l’idea di iniziare il trattamento. Se invece vi dicesse che la riduzione del rischio di infarto sarebbe del 2,3%, pensereste che con un valore così basso non valga la pena assumere la terapia. E se entrambi i valori fossero veri contemporaneamente?
No, non si tratta di un indovinello, ma del fatto che esistono diversi modi di descrivere un rischio, ciascuno dei quali non cambia il rischio in sé, ma può influenzare profondamente come noi lo percepiamo.
Ma andiamo con ordine. Gli studi che vengono fatti per determinare l’impatto che un certo intervento avrà sulla salute pubblica possono presentare i risultati in modi differenti, e il rischio ne è un esempio emblematico. Il rischio non è altro che la probabilità che un evento si verifichi. Quando un risultato viene definito dalla presenza (o assenza) di un evento, questo è generalmente espresso come rischio assoluto (RA), ovvero la percentuale di persone in cui si verifica l’evento all’interno di un gruppo. Va da sé che se applichiamo questo ragionamento a uno studio clinico, nel quale un gruppo di controllo viene comparato a un gruppo trattato con un farmaco, sarà possibile calcolare il rischio assoluto del gruppo di controllo (detto anche rischio di base) e il rischio assoluto del gruppo trattato. Sottraendo il rischio assoluto del gruppo trattato al rischio assoluto di base otterremo la riduzione del rischio assoluto (RRA), un valore che serve a dare l’indicazione dell’impatto che un determinato intervento terapeutico ha sulla popolazione studiata. Tuttavia, l’RRA ci racconta solo una parte della storia: qual è infatti il rischio che rimane nella popolazione trattata di sperimentare comunque l’evento?
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo comparare il rischio che l’evento si verifichi nel gruppo trattato con il rischio che l’evento si verifichi nel gruppo di controllo. Per farlo, dobbiamo ricorre a un valore chiamato rischio relativo (RR).
I dati che ho citato all’inizio dell’articolo riguardano uno degli studi fondamentali per l’approvazione e l’immissione in commercio del Lipitor®, il farmaco più venduto della storia. Nello studio clinico volto a dimostrare l’efficacia del Lipitor nel ridurre il rischio di infarto, il rischio assoluto è risultato pari al 9% nel gruppo di controllo e al 6,7% nel gruppo trattato. Di conseguenza, la sua riduzione (una sottrazione) risultava pari al 2,3%. Ma il rischio relativo, detto anche rischio residuale, era pari al 74% (rapporto tra i due valori), e quindi la sua riduzione era del 26%. Tornando all’esempio iniziale, in entrambi i casi il medico non vi sta mentendo: avremo effettivamente il 26% di possibilità in meno di avere un infarto rispetto a chi non assume il farmaco, ma in termini assoluti avremo un rischio d’infarto inferiore del 2,3%. Vedete bene come sia possibile, presentando l’uno o l’altro valore, convincere della bontà o meno di una decisione.
Insomma, il messaggio fondamentale è che rischio relativo e rischio assoluto sono due valori ugualmente importanti per comprendere un fenomeno e per prendere una decisione informata se adottare o meno una determinata soluzione terapeutica, e pertanto andrebbero sempre presentati entrambi.
Sfortunatamente, sono i grandi numeri a far vendere i giornali (e i farmaci), e la tendenza comune è un uso preferenziale e improprio del rischio relativo, per fare apparire migliori gli effetti di un intervento.
Carlo Barbera
qui il suo precedente articolo