Manuale di terminologia medica – Come scrivere testi di medicina

Disponibile nelle librerie

È finalmente stato pubblicato il Manuale di terminologia medica – Come scrivere testi di medicina. Da oggi è disponibile sul sito dell’editore, qui, ma a breve lo sarà anche sul sito di tutte le librerie on line.

Il manuale riprende tutti i contenuti di questo blog, completamente aggiornati e rivisti e soprattutto ampliati con nuovi argomenti. Anche questa è stata la ragione per aver ultimamente pubblicato assai poco sul blog: sono stato preso da questo compito cui tengo molto. Spero a breve di tornare a pubblicare contenuti che siano di grande interesse per tutti coloro che scrivono, redazionano e traducono testi di medicina, a maggior ragione se il volume pubblicato produrrà commenti, domande, questioni. Cosa che naturalmente auspico.

Il manuale è composto di otto Sezioni e cinque Appendici.

Apre una sessione sugli aspetti fondamentali dell’italiano, per non commettere errori. Può sembrare superfluo, ma l’esperienza mi dice che sono ancora troppi gli errori su questioni di base, e un refuso, una sgrammaticatura inficiano da subito anche il miglior testo.

Segue una sezione sulle norme redazionali di base per scrivere testi di medicina: da come trattare abbreviazioni, acronimi e sigle in medicina, a come si scrivono i numeri, le unità di misura, ai riferimenti nel testo a figure e tabelle e molto altro.

La terza sezione, fondamentale, è su come redigere correttamente la bibliografia: un aspetto davvero fondamentale per chi scrive articoli scientifici. 

Una quarta sezione si occupa della nomenclatura, applicata in particolar modo all’anatomia, alle malattie e ai farmaci. 

Seguono due sezioni, curate dallo studio PopMed, di Daniela Longo ed Erika Nerini, sugli studi clinici e sul pubblicare in medicina.

La sezione sette è l’anima del manuale, con argomenti di terminologia medica che riprendono le mie battaglie su come scrivere correttamente, a partire da quello sciagurato uso, che non si riesce a debellare, di “morbidità” invece di “morbilità”, o all’uso del termine “sistema” anche per quelli che sono gli “apparati” del corpo umano.

Chiude la sezione delle multiple-P-medicine: la medicina di precisione, la personalizzata, la preventiva e la predittiva, e altre ancora (quella basata sulle evidenze, la difensiva, di genere e narrativa – per queste ultime due mi sono avvalso della collaborazione della giornalista Maria Grazia Piemontese).

Le Appendici sono i ferri del nostro mestiere: 

  • prefissi, suffissi, primi e secondi elementi nella formazione dei termini medici;
  • tecnicismi collaterali nel linguaggio medico;
  • l’uso dell’inglese in medicina con un’ampia sessione sui cosiddetti falsi amici, curata dalla traduttrice Chiara Montani;
  • il dizionario, dove è riportata la corretta modalità di scrittura per i termini medici più controversi, quelli che si sbagliano più facilmente.

Ho messo ogni cura nella realizzazione di questo manuale, vorrei davvero che rappresentasse per la nostra comunità di giornalisti scientifici, medical writer, redattori, traduttori, e naturalmente medici, uno strumento di grande utilità. Io lo ho realizzato con questo spirito, uno spirito di servizio, in cui mettere a disposizione di tutti ciò che ho imparato e appreso in tutta la mia vita professionale.

Spero di avere molti feedback da voi, anche qualche distinguo sul perché scrivere in un modo e non nell’altro: sarà un modo, come detto, per confrontarsi e riprendere a discuterne sul blog.

Non mi resta che augurarvi buona lettura!

Ai visitatori del blog

Cari visitatori del blog,

siete sempre numerosissimi nonostante da tempo non lo stia aggiornando. Di questo vi ringrazio moltissimo e mi scuso per questa interruzione dovuta a problemi di diversa natura.

Purtroppo, se ne è verificato uno molto grave: gran parte dei contenuti del blog è stato ripreso, senza autorizzazione alcuna, e messo in un manuale di cui solo per magnanimità non dirò altro. Tutta la sezione dei Prefissi e suffissi, quella dei falsi amici, quella dei tecnicismi collaterali e molto altro. Senza pudore, utilizzando persino la stessa grafica. Il tutto condito con altri contenuti raffazzonati, di pessima qualità. Ho intrapreso le opportune misure e ottenuto il ritiro dal commercio di detto manuale.

A seguito di ciò, ho ritenuto di dovermi tutelare più di quanto facessi prima. Alla dicitura precedente, è ora stato aggiunto che tutti i contenuti sono soggetti a copyright e il relativo simbolo. La vigilanza sui contenuti del blog sarà molto più accorta.

Diffido pertanto chiunque da farne un uso che non sia personale e di consultazione. Nessun contenuto può essere riprodotto in testi o pubblicazioni di alcun tipo. Se ciò è stato fatto, invito a ritirarlo immediatamente.

È stata davvero una brutta vicenda che ha mortificato il mio spirito di servizio, vero motore di questo blog, per aiutare chi scrive e traduce testi di medicina.

Colgo l’occasione per informarvi che sto lavorando a un’edizione cartacea del manuale, quella vera, che riprenderà gran parte dei contenuti del blog, aggiornati e adattati per questo nuovo supporto.

E naturalmente conto di tornare attivo quanto prima con nuovi contenuti.

Continuate nel frattempo a seguirmi e se avete suggerimenti, idee, proposte di ulteriori argomenti per il manuale in corso di lavorazione, fatemene partecipe: ne sarò lietissimo.

Un caro saluto a tutti.

Tiziano

Gli studi clinici

Provare anche solo a inquadrare gli studi clinici è impresa ardua, perché il materiale a disposizione, la letteratura in merito, sono sterminati. Fatta queste debita premessa, ci proviamo comunque, ovviamente con l’attenzione ai soli aspetti terminologici, come nella natura di questo blog, con l’intenzione di aiutare il lettore a conoscere la definizione di ogni tipo di studio e saper distinguere tra essi.

Dunque, uno studio clinico (o trial clinico) è un tipo di ricerca condotta sul genere umano per raccogliere dati sulla sicurezza e sull’efficacia di nuovi farmaci o  nuovi dispositivi. I potenziali benefici di un nuovo farmaco, o dispositivo (ma anche di un tipo di chirurgia o di assistenza medica), oltre che sicuri ed efficaci, sono in un rapporto favorevole rispetto ai precedenti? La nuova procedura diagnostica o terapeutica è migliore rispetto a quelle utilizzate correntemente? Queste le domande tipo cui lo studio clinico deve rispondere.

Essi possono essere classificati, in base alla metodologia utilizzata, in due grandi categorie.

Gli studi sperimentali, che valutano gli effetti di un nuovo trattamento su un gruppo di soggetti o in una popolazione. Sostanzialmente vogliono rispondere alla domanda “questa nuova procedura diagnostica o terapeutica funziona?”. Comprendono:

  • trial sul campo
    • trial di interventi e comunità
    • trial controllati randomizzati (sperimentazioni cliniche).

Gli studi osservazionali, il cui fine è descrivere le cause e le conseguenze delle malattie, identificare i fattori che ne modificano l’andamento, valutare l’impatto di malattie o condizioni sulla qualità della vita; in altre parole suggerire relazioni tra i fattori per determinare un rapporto causa-effetto. Si distinguono in analitici e descrittivi.

Quelli analitici comprendono i seguenti.

  • Studi longitudinali, cosiddetti perché si realizzano con dati ottenuti nel susseguirsi del tempo. Comprendono:
    • Studi di coorte: uno studio che studia una coorte, ovvero un gruppo di persone con una caratteristica comune che sperimenta un dato evento in un periodo di tempo selezionato. Possono essere prospettici, se seguono l’evoluzione nel tempo dei dati riferiti al momento corrente, o retrospettivi, se utilizzano dati del passato.
    • Studi caso-controllo: uno studio utilizzato per identificare i fattori che possono contribuire al realizzarsi di una data condizione clinica (possono essere solo retrospettivi).
  • Studi trasversali: si basano sull’osservazione di un fenomeno o di un evento clinico in un determinato periodo di tempo («si taglia trasversalmente», da cui il nome).
  • Studi di correlazione geografica o temporale: studi di mortalità per una certa malattia in due o più territori dove la mortalità è messa in rapporto con la diversa esposizione/distribuzione di uno o più fattori di rischio.

Quelli descrittivi comprendono:

  • serie di casi
  • studi ecologici
  • a distribuzione spaziale
  • ad andamento temporale.

Quella sopra esposta è, come detto, la classificazione metodologica degli studi clinici, ma vi sono anche altri criteri di classificazione:

  • a seconda del fattore tempo
    • studi longitudinali (retrospettivo e prospettico)
    • studio trasversale;
  • a seconda del gruppo studiato
    • sulla popolazione – studi ecologici o di correlazione
    • sugli individui – comunicazione di un caso (case report), studio di serie di casi, studio trasversale, studio longitudinale;
  • a seconda dello scopo (quest’ultima è la classificazione fornita dal National Institutes of Health [NIH])
    • trial preventivi
    • trial di screening
    • trial diagnostici
    • trial terapeutici
    • trial sulla qualità della vita
    • trial a uso compassionevole.

Il modello di riferimento degli studi sperimentali è lo studio clinico controllato randomizzato. Quest’ultimo termine significa che ogni soggetto inserito nello studio è assegnato a ricevere in modo casuale (random, appunto) uno fra i trattamenti in studio (per es., farmaco A o farmaco B). Lo scopo della randomizzazione è eliminare interferenze di selezione dei trattamenti, ottenere cioè gruppi di soggetti simili, affinché qualsiasi differenza vista alla fine tra i gruppi possa essere attribuita esclusivamente al trattamento e non a errori sistematici o al caso. Per evitare influenze sullo studio il paziente non deve sapere che farmaco assume, e in questo caso lo studio è definito in cieco; quando anche i medici non sanno quale trattamento è somministrato a ciascun soggetto, si parla di studio in doppio cieco; e in triplo cieco quando ne sono all’oscuro anche coloro che fanno l’analisi dei dati. Ultimamente, poiché il termine “cieco” può sembrare inopportuno verso i non vedenti, si preferisce il termine mascheramento (rispettivamente, singolo, doppio o triplo).

Fonte:

  • De Riu S, Casagrande ML, Da Porto A. Come pianificare uno studio clinico. Il Giornale di AMD 2013, 16:377-383.
  • Mosconi P. Studi clinici: quanti tipi esistono e a che cosa servono? Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri. 18 ottobre 2020.
  • Wikipedia: studio clinico (https://it.wikipedia.org/wiki/Studio_clinico).

Quando le unità di misura le fa il corpo umano

In un precedente articolo ci siamo occupati delle unità di misura. Ci torniamo sopra con un po’ di storia, cosa sempre interessante, tanto più che qui diremo di unità di misura che facevano riferimento al corpo umano e sue parti. Il dizionario della lingua italiana Zingarelli, nella “parola del giorno”, le ha raccolte nel corso di un paio di settimane. Vediamole insieme.

  • Auna – antica misura di lunghezza usata in Francia e in Belgio prima dell’adozione del sistema metrico decimale (aune, dal francone alina, sta per “avambraccio”). 
  • Bema – nell’antica Grecia, unità di misura di lunghezza equivalente a 0,74 metri (dal greco bêma, che significa “passo”, dal verbo báinein, “camminare”). 
  • Braccio – antica unità di misura lineare, specie per stoffe, il cui valore oscillava tra 0,58 e 0,70 metri.
  • Cubito – antica unità di misura di lunghezza (dal latino cŭbitu(m), “gomito”).
  • Dito – misura, quantità e simili corrispondente circa alla larghezza di un dito.
  • Palmo – distanza compresa tra le estremità del pollice e del mignolo della mano aperta e distesa, ma anche antica misura di lunghezza corrispondente all’incirca a un quarto del metro, cioè a 25 cm.
  • Passetto – antica unità di misura di lunghezza italiana, pari a un piccolo passo.
  • Passo – antica unità di misura lineare, variabile, nel tempo e nel luogo, da circa 1,50 m a 2 m, ma anche spazio (di circa 60-70 cm) percorribile con un passo.
  • Pertica – misura agraria romana di lunghezza, pari a circa dieci piedi.
  • Piede – unità di misura di lunghezza inglese corrispondente a 12 pollici o a un terzo di yard, ed equivalente a 30,48 cm.
  • Pollice – misura di lunghezza inglese, pari a 0,914 metri.
  • Spanna – lunghezza della mano aperta e distesa, dalla estremità del mignolo a quella del pollice.
  • Tesa – misura di lunghezza pari all’apertura delle braccia.

Nell’immagine, strumenti di misura nel Rinascimento (Lastra pubblica di misurazione in vigore nella città di Senigallia, 1490).

Come si scrivono batteri e virus?

Proviamo a fare chiarezza e a dare qualche regola circa le modalità di scrittura di batteri e virus, argomento piuttosto controverso.

Per i nomi dei batteri si riportano solitamente il genere (per es., Escherichia) e la specie (per es., coli). Questi nomi scientifici, in latino, vanno composti in corsivo con l’iniziale del primo termine (il genere) in maiuscolo, mentre il nome della specie viene composto in minuscolo (per es., Escherichia coli).

Quando si fa riferimento alla famiglia cui essi appartengono (per es., Enterobacteriaceae), questa – per convenzione – viene composta in tondo, anche se trattasi di nome latino. Idem per ordine, classe, phylum, regno e dominio.

Dopo la prima citazione, all’interno di uno stesso articolo o capitolo, si può contrarre il primo termine con la sola iniziale puntata (per es., E. coli). Attenzione, tuttavia, ai generi che iniziano con la “S” perché essendo molti (si pensi solo a Streptococcus e a Staphylococcus) l’uso della sola iniziale potrebbe creare confusioni, pertanto vanno abbreviati solo quando si è certi che non vi sono ambiguità.

Se non si usa il termine scientifico latino, ma la forma italianizzata (per es., clamidia e non Chlamydia o streptococco e non Streptococcus), ovviamente non si farà più ricorso né al corsivo né all’iniziale maiuscola.

Spesso il genere del batterio è seguito dall’abbreviazione “sp.” o “spp.” (l’abbreviazione al singolare viene spesso usata dopo il nome del genere quando non si riconosce la specie precisa, mentre il plurale lo si utilizza per riferirsi a tutte le specie appartenenti allo stesso genere) e che va composta anch’essa in tondo.

Circa l’uso dell’articolo davanti al nome dei batteri, è sostanzialmente una questione di stile di scrittura. Normalmente, le norme redazionali lo sconsigliano per i nomi latini delle specie equiparandoli a nomi propri. Tuttavia, in un contesto discorsivo, è accettabile (per es., l’E. coli), ma se il nome del batterio è seguito da “spp.”, l’articolo non va usato. Gli inglesi non lo usano mai.

Quanto ai virus, di solito per questi si usano i nomi comuni (per es., citomegalovirus, papillomavirus, herpesvirus,…) per cui non si fa ricorso al corsivo, che invece ovviamente andrà usato se ne si riporta il nome scientifico.

Immagine da: Di Phoebus87 di Wikipedia in inglese, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3072531

Taglio cesareo o parto cesareo?

Un affezionato lettore del blog mi chiede se sia più corretto usare “taglio cesareo” o “parto cesareo”.

Esistono entrambe le forme e sono accettate entrambe, anche se la mia preferenza, per le ragioni di cui dirò, è per “taglio cesareo”, anche se una ricerca su Google ha dato ben 2.050.000 occorrenze per “parto cesareo” contro le 706.000 di “taglio cesareo”.

La storia del taglio cesareo è antichissima. Si ha una prima testimonianza risalente addirittura al 715 a.C. quando una legge romana (la “Lex Cesarea”) prevedeva l’estrazione del feto dalle donne morte durante il travaglio di parto. Questo veniva fatto con lo scopo di salvare il bambino (cosa che peraltro succedeva di rado), perché era vietato seppellire una donna gravida prima dell’estrazione del feto (e in seguito anche per poterlo battezzare). Ebbene, quella “Lex Cesarea” prende il nome  dal verbo latino caedo, caedis, cesi, caesus sumcaedere  cioè “tagliare”. Questa una prima ragione per cui preferire “taglio” a “parto”, e cioè l’origine etimologica. Certo, alcuni potrebbero obiettare che visto che “cesareo” sta già per “taglio” dire “taglio cesareo” è una ripetizione…

I bambini che venivano estratti post-mortem venivano chiamati cesones o césares; è infondata invece l’origine del termine in relazione alla nascita di Giulio Cesare, semplicemente per il fatto che sua madre (Aurelia Cotta) morì anni dopo aver dato alla luce il figlio. Piuttosto è il cognomen “Caesar” che potrebbe derivare dal fatto che un antenato di Cesare nacque dall’utero tagliato (lo racconta Plinio il Vecchio che a proposito di Manlio il Cartaginese e Scipione l’Africano dice che erano chiamati “Cesari” perché estratti dal ventre tagliato della loro madre).

Interessante, poi, sapere che San Cesareo di Terracina è il protettore del parto cesareo. Costui (un giovane diacono martirizzato a Terracina all’inizio del II secolo d.C.), è appunto il santo protettore dei parti cesarei in virtù del suo nome, questo sì legato al grande condottiero romano (il nome Cesareo significa “devoto a Cesare”).

Insomma, per tornare alla domanda del lettore, direi che il parto cesareo è quello che avviene attraverso un taglio cesareo; quindi, darei la preferenza alla correttezza di quest’ultimo termine. Anche la comunità scientifica credo che per la maggioranza la pensi così: riprova ne è che la AOGOI (Associazione Ostetrici Ginecologi Ospedalieri Italiani) parla di “linee guida AOGOI taglio cesareo” (qui).

Termini di posizione e di movimento

Partendo dalla posizione anatomica di riferimento (posizione eretta, talloni uniti, braccia distese e palmi delle mani rivolti in avanti) la posizione di ogni parte del corpo viene definita riferendosi a tre piani ortogonali: sagittali, trasversi e frontali.

Il piano sagittale mediano(o di simmetria) è un piano verticale con orientamento antero-posteriore passante per la metà del corpo. Rispetto ad esso, pertanto, si identificano un lato destro e uno sinistro. Da qui, i termini mediale (la parte più vicina al piano di riferimento) e laterale (quella più lontana). Per gli arti si usano i termini prossimale e distale, cioè la posizione di un determinato punto rispetto all’articolazione di attacco al tronco (la scapolo-omerale per l’arto superiore e la coxo-femorale per l’arto inferiore). Prossimale è il punto dell’arto più vicino all’articolazione e distale quello più lontano.

A destra e sinistra del piano mediano possono essere tracciati infiniti piani sagittali paramediani.

I piani trasversali (o assiali), ortogonali al piano sagittale mediano, sono infiniti piani orizzontali che attraversano il corpo a varia altezza. Rispetto a questo piano di riferimento  ogni parte del corpo può essere definita come superiore (o craniale) o inferiore (o caudale).

I piani frontali (o coronali) sono piani verticali, perpendicolari ai piani trasversi. Rispetto ad essi ogni parte del corpo può essere definita come anteriore (o ventrale) o posteriore (o dorsale).

Dall’incrocio dei piani di riferimento di cui sopra, si creano tre assi, che sono il fulcro dei principali movimenti del corpo.

L’asse sagittale, rispetto al quale i movimenti vengono definiti di inclinazione laterale del rachide e di adduzione/abduzione degli arti.

L’asse trasversale, rispetto al quale i movimenti vengono definiti di flessione/estensione.

L’asse longitudinale, rispetto al quale si hanno i movimenti di torsione del rachide,  di rotazione degli arti, di pronazione/supinazione dell’avambraccio e della mano.

Elenchi e parentesi

Chiudiamo questa sezione dedicata agli aspetti redazionali con alcune indicazioni su come trattare elenchi e parentesi.

Elenchi. Per gli elenchi all’interno del testo, usare lo “stile elenco”, con i classici puntini o trattini. In alternativa, le forme 1) … 2) … 3) … o a) … b) … c) … Quando un elenco, di solito introdotto dai due punti, è costituito da frasi brevi, usare per ogni frase l’iniziale minuscola e il punto e virgola alla fine della stessa; tuttavia, se la frase non contiene segni di punteggiatura ed è particolarmente breve, alla fine di ogni riga si può usare anche la virgola o addirittura nessun segno di interpunzione. Usare comunque il punto alla fine dell’ultima riga dell’elenco stesso. Se l’elenco è invece costituito da frasi lunghe, ciascuna di esse avrà l’iniziale maiuscola e il punto alla fine della stessa: né più né meno, dunque, di una frase normale, che si distinguerà solo per un rientro sul margine sinistro. Questo tipo di elenco, di solito, non viene introdotto, come abbiamo visto sopra, da una frase che finisce con i due punti, ma da una frase di senso compiuto chiusa da un punto. È preferibile che il capoverso che segue l’ultimo punto dell’elenco non sia rientrato, a maggior ragione se vi è una spaziatura.

Parentesi. Le parentesi non sono mai precedute da segni di interpunzione e i segni di punteggiatura vanno sempre dopo la chiusura delle parentesi, tranne quando la frase tra parentesi è di senso compiuto e ha l’iniziale maiuscola: in questo caso, il punto deve essere posto all’interno della parentesi di chiusura, e non all’esterno (analogamente, per eventuali punti interrogativi ed esclamativi). Dopo la parentesi di apertura non deve essere inserito alcuno spazio, così come prima della parentesi di chiusura. All’interno delle parentesi tonde, se necessitano altre espressioni tra parentesi, usare le quadre. Le parentesi quadre si usano anche per contenere indicazioni redazionali, precisazioni da parte dell’editore o del curatore del testo.

Segni e operatori matematici

Gli operatori matematici (+, –, x, :, =) sono preceduti e seguiti da uno spazio, tranne quando i segni + o – indicano un numero positivo o negativo, nel qual caso lo spazio non viene messo (ricordare, per il segno di meno, di usare il trattino medio [Alt + 0150] e non il trattino corto). Anche per i due punti (:), quando indicano una proporzione (per es., il rapporto maschi:femmine è 3:4) non si usa lo spazio né prima né dopo il segno stesso.

Il segno di percento (%) segue il numero senza spazio; preferire sempre il segno grafico alla parola percento. Negli intervalli di percentuali, evitare la ripetizione del segno grafico (per es., 1-2% e non 1%-2%).

I segni di maggiore e minore (> e <) sono preceduti da spazio ma uniti al numero che segue (per es., >2), tranne quando indicano un confronto tra due parametri (per es., p < q).

Attenzione a questi segni e ad altri operatori matematici (in particolare ≥, ≤, ±…): purtroppo, molto spesso, alcuni di questi si “perdono” nel passaggio da Windows a Mac trasformandosi in altro ed è pertanto opportuno evidenziarli affinché in bozza possano essere prontamente verificati. In alternativa, si può usare, per esempio, il simbolo # prima e dopo il segno in oggetto, il che permetterà al compositore di individuarli e conservarli. Questo problema può verificarsi anche con le lettere dell’alfabeto greco (α, β, γ…), peraltro molto usate in medicina (per es., α-litici, β-bloccanti…). Controllare sempre, pertanto, che tali lettere contenute nel file originale siano state conservate in bozza, o, in alternativa, preferire la forma estesa (alfa, beta, gamma…) eventualmente da convertire poi nel segno grafico corrispondente.

Analogo problema può verificarsi con il simbolo di microgrammo (“μg”), che può pertanto essere scritto nel file originale con “mcg” per poi essere convertito a “μg”.

Uso del corsivo

Il corsivo si usa per evidenziare frasi o parole in relazione alla loro rilevanza nel testo, così come per i titoli dei libri, dei periodici, dei film. Ma, e questo è ciò che più qui ci interessa, lo si utilizza anche per quei termini inglesi (o comunque parole straniere) non di uso comune nella lingua italiana. Qui, un elenco dei termini ormai “sdoganati”, che pertanto non richiedono il corsivo.  In teoria, tutti gli altri andrebbero scritti in corsivo. Tuttavia, vanno fatte alcune distinzioni. In una pubblicazione specialistica, per esempio, per molti termini ormai comuni in un determinato ambito si può accettare l’uso del tondo. Molti termini, poi, conflusicono in una sigla o in un acronimo, per cui – come detto nell’apposita sezione – una volta esplicitata la stessa (con l’equivalente  inglese in corsivo), non verranno più usati. Ricordare che i nomi degli studi clinici e delle associazioni vanno composti in tondo e non in corsivo, trattandosi di nomi propri (e non devono mai essere tradotti).

Quando un termine inglese tecnico o specialistico ricorre molte volte nel testo, lo si può scrivere in corsivo solo la prima volta che ricorre, specie se viene spiegato.

In corsivo si indicano anche i nomi dei microrganismi il cui nome scientifico è in latino, con l’iniziale del primo termine (il genere) in maiuscolo e del secondo (la specie) in minuscolo (per es., Neisseria meningitidis).

Anche per alcune espressioni latine come in vitro, in vivo, ex vivo, in situ viene adottato preferibilmente il corsivo.

Infine, molto importante anche perché è un errore comune, non fare mai uso del corsivo e delle virgolette insieme, l’uno esclude le altre, e viceversa.